Sto parlando dei terremoti che ieri hanno fatto chiudere le scuole a Roma, a Perugia, a L’Aquila e in tante altre città e paesi del centro Italia. Quello delle tre grandi e terribili scosse: ore 10,25 magnitudo 5,3; ore 11,14 magnitudo 5,5 e 11,26 magnitudo 5,3 in provincia de L’Aquila.
Il terremoto, a differenza del nubifragio, di un incendio, di un’alluvione, non finisce con un punto ma con una virgola. Finisce la scossa, finiscono le scosse, risali in casa, ti rimetti in piedi se sei fortunato, ma non finisce lì. Vai sui social o alla TV e senti parlare di “sciame sismico”. Che vuol dire che il terremoto ritornerà. Che si riassesta ma poi ritornerà. Solo che tu non puoi fare nulla se non cambiare radicalmente la tua vita, ma come si fa? Io, ora, mentre scrivo, mi trovo a Perugia. I terremoti di questi ultimi anni qui sono stati forti; le case lesionate, molte. Ma questa notte dormirò nel capoluogo umbro come faranno tutti gli abitanti della città. Cercherò di non pensare che potrebbe arrivare una scossa un po’ più forte che farebbe crollare tutto. Non ci penserò, perché se lo facessi non avrei comunque la forza di cambiare vita: dovrei decidere di andare a vivere, che so, in Spagna, dove i terremoti non accadono mai. E come farei? Perché comunque, anche se i lavori di adeguamento strutturale dovessero iniziare ora, durerebbero anni. E io nel frattempo dove vivo, dove andrei? Dove andremmo a vivere? E quindi, è terribile da dire, ma la verità è che al terremoto ci si abitua. La paura, come le scosse, ha degli apici ma poi si riassesta. Nelle ore e nei giorni successivi. È questa insicurezza, questo attendere non si sa cosa e non si sa quando e quanto forte, che debilita le forze e ti fa abituare al terremoto. Che fa smettere di essere propositivi e costruttivi.
Ma Dio dov’è? è una di quelle domande che tutti fanno ai credenti. Per un cristiano la domanda non è geografica. Dio è dove sono tutte le altre persone che amiamo e ci amano. È lì ad ascoltare, a parlarci, a tacere. E spinge le nostre coscienze a prenderci le nostre responsabilità per costruire una società migliore, più solidale, che riduca sempre più i rischi delle catastrofi naturali. Quando la nostra paura tace per lasciarci dormire – ma quindi non ci spinge ad agire – dovremmo prendere a prestito Dio che ci spinga a prendere in mano noi stessi per migliorare il nostro destino insieme con Lui. Un po’poco per un Dio? Non per il Dio cristiano. Non per Cristo. Anche 2000 anni fa ha perso prima di vincere. È morto prima di risorgere. “Funziona” così la nostra fede. Pone domande a cui risponde una presenza. Non c’è libretto di istruzioni per il dolore.
Puoi leggere il libro di Giobbe mille volte ma la tua sofferenza sarà sempre il tuo personale calice amaro. Dovrai berlo. C’è stato l’ennesimo colpo di coda del terremoto. E questo impone presenza e vicinanza. “Non lasciateci soli”: è l’appello più frequente dopo i disastri. Ecco questa è la domanda cui la nostra fede deve saper rispondere sempre meglio. Mai più soli.
Non tanto tempo fa Padre Giulio Michelini spiegava che nei vangeli il terremoto è teofania, non castigo. Qualcosa cioè che veicola, paradossalmente, un contenuto di stampo positivo. È un modo per dire come la salvezza di Dio si manifesta in maniera sconvolgente, imprevedibile e incontrollabile: è “un terremoto”, si dice. E lo sarebbe davvero, il terremoto, se la benzina delle nostre azioni non fossero più l’ira e la paura, destinate ad affievolirsi, ma la speranza che mette all’opera per un mondo più solido perché più solidale.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da IlSussidiario.net
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