Torna la musica dei The Sun con il singolo “Le case di Mosul”, brano che anticipa il loro nuovo album “Cuore Aperto”, in uscita il prossimo 16 Giugno 2015. La band rock è nota per la loro conversione spirituale, per la bellezza e profondità dei loro testi e per aver suonato in numerosi eventi promossi dalla Chiesa.
Di seguito l’intervista completa fatta al cantante e autore dei testi Francesco Lorenzi, uscita lo scorso 18 Maggio sul sito dell’Avvenire:
Un ragazzo che fugge, una figurina stilizzata, frutto di un’estenuante corsa e della video grafica. Scappa dalle fiamme, dalle bombe, da corpi di impiccati che penzolano, da volti di bambini, uomini, donne e vecchi annichiliti dalla violenza più cieca, tra case sventrate e distrutte. Corre, e si moltiplica, verso una libertà e una pace che, se è tale, non può che essere di tutti. È il videoclip de Le case di Mosul, il singolo (sarà trasmesso da domani) che anticipa Cuore aperto, il nuovo ispirato e luminoso album dei The Sun (in pre-ordine da stanotte e nei negozi dal 16 giugno). Per l’ex punk band vicentina, nata nel 1997 e capitanata dal cantante, chitarrista e compositore Francesco Lorenzi (con lui il chitarrista Gianluca Menegozzo, il bassista Matteo Reghelin e il batterista Riccardo Rossi), si tratta del terzo album pop/rock in italiano, dopo la conversione “spirituale” e stilistica che ne ha fatto un autentico fenomeno musicale non solo giovanile.
Lorenzi, perché un brano così, quasi un pugno nello stomaco, per anticipare il nuovo disco?
«Nasce tutto da un terribile episodio dell’estate scorsa. Rimasi sconvolto dall’uccisione del professor Mahmud Al ’Asali, un docente dell’Università di Mosul, la seconda città dell’Iraq. Lui era un intellettuale musulmano esperto in diritto coranico. Fu ammazzato proprio dagli islamisti dell’Is di fronte ai suoi studenti e poi venne decapitato per aver difeso i diritti dei cristiani. Un esempio potentissimo. Impossibile per me non gridarlo in questo assordante silenzio».
Perché ci sarebbe questo assordante silenzio, come dice lei?
«Forse per ignoranza o, peggio ancora, per paura. “Tacere è un più lento morire, il male del nostro tempo” canto nel brano, immedesimandomi nel professor Al ’Asali. Là si muore e qua si tace. Davanti agli inaccettabili massacri di musulmani, ebrei e cristiani ad opera dell’Is l’Occidente sembra indifferente. Un silenzio che poi nel mio mondo, quello musicale, è ancora più ingiustificabile. Noi abbiamo deciso di non essere complici di questo silenzio. Certo, fare persino un video, realizzato con il regista Andrea Scorzoni e il designer Manuel Succi, su una canzone così forte e delicata non è stato facile. Volevamo che fosse realistico, ma non cruento. E per non distrarre dalla forza intrinseca del messaggio, noi non appariamo. Abbiamo fatto deserto ancora una volta, come nel Negev lo scorso novembre, quando ci preparammo spiritualmente a registrare il disco».
Qual è il cuore del messaggio che volete lanciare con questo nuovo lavoro?
«La necessità della compassione, di un sentire comune: l’unica salvezza possibile per l’uomo. Che si esprime con quel “Credo in te” che chiude Le case di Mosul e che è anche il senso dell’iniziativa che abbiamo lanciato sul nostro sito dove noi quattro invitiamo ciascuno a dire il proprio “Credo in te” a chi desidera. In una settimana più di duecentomila contatti, che ora diventeranno volti nel lungo tour che inizierà il 18 giugno. Abbiamo anche aggiunto un’orchestrazione dal titolo 33 per ricordare tutti i giusti martirizzati».
Ma non temete il rischio di sembrare soltanto degli ingenui e illusi paladini del bene e della pace?
«La speranza non può non essere cantata. Le case di Mosul racconta una tragedia di oggi, ma poggia su valori universali che vanno oltre qualsiasi epoca e credo religioso. Nella canzone ci sono delle domande finali: dove sono finiti l’amore, la compassione, la distinzione tra il bene e il male? Domande che ci poniamo ogni giorno e per le quali non c’è una risposta dogmatica, come si vorrebbe per comodità. C’è invece il coraggio di aprire i nostri cuori e di abbracciare il senso ultimo di quel “credo in te” che non è soltanto credere in Dio, ma nell’uomo. E qui non c’è soltanto la voce del professor Al ’Asali a gridare in me. C’è anche quella dei miei nonni e bisnonni, con le guerre che hanno fatto e i morti che hanno toccato con mano».
Ma quelle erano le due guerre mondiali, una follia collettiva che ha coinvolto tutti. Perché le cita?
«Un libro sulla Grande Guerra che ho appena letto mi ha fatto ripensare ai miei nonni e ai miei bisnonni, sia paterni che materni: ognuno ha combattuto in guerra, dall’inizio alla fine. Tutti sono tornati a casa vivi, ma con l’animo lacerato. Non soltanto per i compagni visti uccidere dal nemico. Mi ha sconvolto leggere come gli ufficiali trattassero i soldati, italiani come loro: esecuzioni sommarie, fucilazioni con estrazione a sorte. E lì non c’erano differenze etniche o religiose. Prima pensavo che l’efferatezza dell’Is fosse lontanissima dalla nostra, ma non è così. La violenza si propaga e cancella ovunque la compassione. Oggi corriamo il rischio di assuefarci alle immagini di violenze e decapitazioni che si mescolano a tutto il resto nell’indistinto fluire del web. Forse è il disegno di Satana: confondere tutto e anestetizzare le coscienze».
Il re del mondo…
«Il vero punto è l’educazione all’amore e all’empatia. Qui i valori cristiani sono contagiosi. Quando vedi la bellezza, la bontà e l’amore non puoi fare altro che abbracciare queste cose. Forse tutti quei musulmani europei di seconda generazione andati ad arruolarsi nell’Is pur avendo studiato nella laica Europa, della cultura cristiana non hanno assorbito nulla».
Di bellezza e amore è invece intriso il vostro nuovo disco.
«Sì, a partire da Il mio miglior difetto, che apre il cd ed è un invito a non essere indifferenti e a non desistere di fronte a un mondo che sembra materialmente andare a pezzi. Ognuno dei dodici brani ha una doppia lettura, perché l’amore è evocato sia a livello terreno e interpersonale, sia in rapporto a Dio. È la sfida assoluta di questo disco, perché la vita è nel contempo orizzontale e verticale. Non può esserci solo l’amore per il partner o solo per Dio o solo per la natura o per le proprie passioni. Se è parziale, non è amore.
Come canta in un verso nel bellissimo Una ragione in più…
<+TONDOAGORA>«C’è una frase, “Io non basto più a me stesso, ho bisogno anche di te”, con cui intendo affermare la centralità dell’amore in tutte le sue direzioni, non solo verso il Cielo. L’uomo deve riferirsi sempre al mondo, pur con tutte le sue brutture e storture. Disperare sarebbe cedere a Satana che vuole il nostro suicidio, individuale e collettivo. Questo brano l’ho meditato a lungo e all’inizio s’intitolava “Sconfitte vinte”. Rappresenta la crisi, quando tutto sembra inutile e la nostra faccia non ci piace più. Finché arriva il coraggio di far sgorgare le lacrime risanatrici che riportano alla vita. Per questo il dolore ha senso e quello che ci salva è una ragione in più».
Nel disco c’è anche la ricerca di Dio di un musicista complesso e contraddittorio come Johnny Cash.
«C’è sempre stata una mitizzazione del personaggio, ma quasi nessuno ha considerato la cosa in fondo più importante: delle 1.600 canzoni che ha scritto la maggior parte parla di Dio. Così, riadattando il riff di un suo famoso blues, è nata l’idea di una canzone su questa sua tormentata ricerca. Ma non volevo intromettermi troppo e allora ho usato per gran parte del testo le sue stesse parole per raccontare la ricerca della fede di un uomo che ha venduto 90 milioni di dischi. Uno che negli anni ’80 è andato in Palestina e ha autoprodotto un film su Gesù».
Il prossimo 19 giugno sarete a Torino ad aprire l’evento per i giovani legato all’Ostensione della Sindone prima dell’arrivo il 21 giugno di papa Francesco.
«Un’emozione indicibile. Per questo evento ci siamo voluti preparare spiritualmente. Pochi giorni fa abbiamo avuto il privilegio di poter contemplare il telo che avvolse il corpo di Gesù, dopo una lunga e illuminante spiegazione. La Sacra Sindone è il regalo che Gesù ha fatto all’umanità. Nell’era dell’immagine più che mai: Gesù si è fatto la foto duemila anni fa e oggi è ancora qui a mostrarcela».
Redazione Papaboys ( Fonte: avvenire.it / Massimo Iondini)
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