Mi fa male il mio rinnegamento. I miei tradimenti nascosti e silenziosi. Voglio fare bene ogni cosa, e odio il fallimento e il tradimento. Ma non posso sempre vincere. Fallisco. E mi addormento, come hanno fatto i discepoli mentre Gesù lottava tra la vita e la morte nel Giardino degli Ulivi.
Tradisco la Sua fiducia. Non sono all’altezza, non faccio ciò che Lui vuole che io faccia. O quello che credo Lui si aspetti da me. Non riesco a giudicare me stesso. Non riesco a vedere se la mia vita è giusta o sbagliata. Se sto seguendo Lui o se cerco soltanto ciò che mi fa stare a mio agio. Sono un sacerdote, ma non sempre ci riesco.
Sono accanto a Lui, e dormo. Non è così facile rimanere svegli. Lo so. Il mondo ci tenta. Ho paura della croce e della sofferenza. Temo il disonore e il fallimento. Mi fa male l’oblio. Un solo errore potrebbe seppellire la mia dedizione.
Come Gesù quella notte nel Giardino. L’intera Sua vita compromessa da un bacio. Il suo tempo sulla terra, la Sua carne che ha sostenuto la carne, così debole, di molti.
Mi commuove la pace, il silenzio del Giardino degli Ulivi. Quando Gesù tace, inginocchiato nel Giardino. Dove si sentiva a casa. Il suo luogo di riposo. Mentre pregava, i suoi apostoli dormivano. Gesù pianse e sudò gocce di sangue, al pensiero della croce. La Sua anima era affranta.
Il tradimento di Giuda, suo amico e figlio. E il sonno dei discepoli che erano andati al Giardino degli Ulivi a pregare al Suo fianco. Il loro sonno mi lascia senza parole. Il tradimento mi disturba. Un solo bacio, nel silenzio. Un’ora fatta di rinnegamento, di sonno, di tradimento. È dura. Mi fa paura la mia fragilità.
Qualcuno pregava: “Ti amo, Gesù, sebbene io non veda, non sappia e non sia degna. Solo tu conosci il mio cuore. Fallo tuo, abbatte i muri. Ti dico sì, durante la notte. Con le mie rinunce, con le mie mani povere, con la mia storia, la mia vocazione. Con la paura di essere mediocre, di accontentarmi. Aiutami a saper consolare, a non essere dura, a non analizzare il dolore degli altri, ad abbracciare soltanto, senza mai stancarmi. A volte lo faccio. Che il Tuo amore non smetta mai di meravigliarmi. Che non la smetta di stupirmi del fatto che Tu mi voglia così come sono”.
Ho paura di essere frainteso. Giudicato male. Solo Gesù sa quello che è nel mio cuore. Neanche io lo so. A volte giudico me stesso duramente. Perché non sono fedele e non sono all’altezza. E mi rendo conto di essere lontano dalla santità a cui anelo.
Guardo il Suo volto. Guardo la Sua vita. E chiedo a Dio la forza di combattere. Di non gettare la spugna nella mia vita, non importa cosa succeda. Chiedo a Dio di darmi pace in mezzo alla tempesta. È un miracolo vivere nella pace, quando le circostanze della vita mi turbano. Non penso di essere poi così forte.
Quindi non voglio giudicare il debole. Non voglio. Io stesso sono un debole. Per questo voglio imparare a prendere la croce, la mia croce, ogni mattina. So cosa mi pesa. Non è facile dire semplicemente “sì” a Dio. Senza accampare scuse. Senza giustificarmi.
Solo Dio mi giudica. Questo mi rassicura. Al di là dello sguardo degli uomini, in cui vedo condanna. Al di là dei miei timori, che mi paralizzano. Ho bisogno di più fede, per credere oltre le mie debolezze. La fede nelle stelle che mi hanno portato in alto.
Ho bisogno di credere di più in ciò che Dio può fare con me, al mio fianco. Come ha fatto con i santi. Uomini di argilla, con cui Dio costruisce.
Io non sono un angelo. Nella mia vita ci sono alti e bassi. Successi e strafalcioni. La mia debolezza si sposa con la mia forza. A volte non gestisco bene i miei errori. Non li ammetto. Non li affronto. Li nascondo.
L’altro giorno ho letto: “Il senso di colpa è il risultato di aver fatto un errore personale. È responsabilità nostra. Abbiamo fatto un errore e questo errore deve essere riconosciuto. E bisogna quindi chiedere scusa, chiedere perdono per i danni causati ad un’altra persona, cercare di offrire una soluzione” [1].
Voglio imparare a guardare in faccia i miei errori, i miei tradimenti, quando mi addormento, sfuggendo alle mie responsabilità. Come quei discepoli nella notte del Getsemani. Addormentato, di fronte al dolore di tanti. Evitando l’impegno. Evitando il sacrificio. Senza accettare di aver commesso un errore quando, nel prendere le mie decisioni, ho pensato che stavo facendo quello che Dio voleva.
Cosa me ne faccio del mio senso di colpa? Cosa devo fare con i miei errori? Li nascondo, incapace di guardare le cicatrici che mi hanno lasciato? Vorrei guardare in faccia le mie decisioni, anche se sono sbagliate. Accettarle, chiedere scusa, perdonare, offrire una soluzione. È l’unico modo per crescere e maturare.
Portare la croce, con la mia croce. Con la mia debolezza. E seguire Gesù lungo il cammino. Con quello che sono, non con quello che vorrei essere. Con quel poco che ho, non con quello che vorrei avere. Partendo dal presupposto che non sono un angelo.
Io sono un uomo fatto di fango e luce divina. Fatto di debolezze e di grandezze. Questo mi rende felice. Voglio perdonare i miei errori. E accettare che gli altri mi trattano di conseguenza.
Diceva Tim Guenard: “Dico ai miei figli che quando agisco bene, dovrebbero esserne grati; ma quando non mi comporto bene, hanno il permesso di dirmelo, perché commetto degli errori”.
Voglio riconoscere la mia fragilità davanti a Dio, davanti agli uomini. Ed essere disposto a lasciare che gli altri vedano le mie cicatrici. I miei punti deboli. I miei errori, senza nasconderli. Lasciare che mi aiutino. Che mi dicano cosa ho fatto di sbagliato, senza per questo darmi fastidio. Ho molto da imparare.
Voglio vedere la vita così com’è. Nel piccolo e nel grande. Prendere le mie croci e accettare le mie cadute. Perdonarmi per esse. Accettare la mia vulnerabilità. Dio costruisce dal mio bacio traditore, dal mio rinnegamento, poco prima che il gallo canti. Con il mio sonno, che mi fa evitare le responsabilità. Io non sono un angelo. Sono fango.
Fonte it.aleteia.org/Padre Carlos Padilla