Domenica al pranzo in Arcivescovado una famiglia rom e un gruppo di senza dimora Lunedì l’incontro con i profughi che vivono nelle case occupate e con le famiglie torinesi.
A pranzo con Papa Francesco, nel salone dell’Arcivescovado, domenica ci saranno alcune decine di invitati. Tutti ospiti d’onore per lui, per tanti invece, gli «ultimi» della città. Alla tavola di Bergoglio ci saranno dieci giovani detenuti del carcere minorile Ferrante Aporti, una famiglia rom, una rappresentanza di immigrati, una di senza dimora. Sarà un pranzo semplice, preparato nelle cucine del Sermig, ha raccontato l’arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia. Certamente, un pranzo indimenticabile per tutti coloro che vi parteciperanno. Lunedì, poi, prima di lasciare l’Arcivescovado, Francesco incontrerà una rappresentanza di profughi che vivono nelle case occupate dell’ex Moi e di via Madonna de la Salette, nelle famiglie del progetto «rifugio diffuso», nei centri Sprar.
Dal carcere minorile
Ieri si è tenuta a Palazzo Civico la presentazione del libro «Il cortile dietro alle sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti», Elledici, di Marina Lomunno, un dialogo con il salesiano don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile da 35 anni: sarà lui ad accompagnare i ragazzi in Arcivescovado, domenica. Don «Mecu» li conosce bene, per loro – a prescindere dalla fede e dalla cultura di ciascuno – è una figura di riferimento importante.
«Faremo ancora un incontro prima di domenica, ma in definitiva ognuno vivrà l’incontro con il Papa come si sentirà. Perché dobbiamo fornire noi interpretazioni?», rifletteva ieri don Ricca. «A loro l’idea di pranzare con Francesco fa l’effetto che fa ai bambini quando dici loro una cosa grandissima. “Ma è vero? sul serio?” Io voglio lasciare che capiscano il senso di questo incontro da soli. So già che staranno imbambolati. Fanno gli sbruffoni, ma alla fine…». Ma chi sono questi ragazzi tra i 17 e 20 anni che, come altri 30 circa, stanno scontando la pena in carcere a Torino? «Abbiamo scelto il criterio della rappresentanza delle nazionalità e religioni, non abbiamo guardato la gravità del reato. Andiamo alla mensa di Francesco e lui vuole incontrare chi nella società è ultimo».
Per il cappellano, molti di questi ragazzi non sono diversi «da quelli che incontravo nelle scuole quando insegnavo religione, che incontro in oratorio. Fa comodo a noi pensare che siano “diversi dai nostri”. Invece, un’amicizia sbagliata, un momento particolare ed è possibile che un ragazzo qualsiasi faccia cose molto gravi. Oggi, poi, si commettono reati molto violenti, come le aggressioni senza motivo: è una violenza gratuita, non finalizzata magari, come avveniva anni fa, ad avere qualche soldo in più. Oggi riempie il vuoto, mezz’ora di vita».
I nuovi cittadini
Sarà invece Sergio Durando, direttore della Pastorale Migranti della diocesi, ad accompagnare la (numerosa) famiglia rom e il gruppo di immigrati fino alla porta dell’Arcivescovado. «Questa famiglia – racconta Durando – viveva nel campo di lungo Stura Lazio, è una di quelle che, con molte fatiche, hanno fatto un percorso di inserimento. Una comunità cristiana ha cercato di supportare il loro percorso di integrazione». Per individuare i migranti da portare al pranzo con Francesco, «si è cercato di formare una rappresentanza di quel 15% di torinesi che ha origini nel mondo – prosegue -, tenendo conto delle storie, degli equilibri di genere, dei percorsi. Oggi tra le persone immigrate a Torino c’è chi ha avuto la cittadinanza, chi ha costruito e ha dato un senso alla propria esperienza. Oggi siamo stimolati dagli sbarchi, ma alla tavola di Francesco siederà anche chi è arrivato 30 anni fa e qui ha cresciuto i suoi figli».
Di Maria Teresa Martinengo per La Stampa