Giovannino Bosco (per la mamma e per tutti solo e sempre Giuanìn) fin da bambino andava matto per i divertimenti. Fra tutti però preferiva il gioco della lippa, che consisteva nel ricacciare con un’asta di legno una specie di cilindro, anch’esso di legno, gettato da un compagno.
Mamma Margherita lo rimproverava:
Perché vai sempre con quei compagni? Non vedi che sono cattivi e ti fanno del male?
Appunto perché sono cattivi vado con loro. Se ci sono io, stanno più buoni e non dicono parolacce.
E intanto, vieni a casa con la testa rotta! è stata una disgrazia…
Sta bene… ma non andare più in loro compagnia. Mamma!…
Mi hai inteso?
Se è per farvi piacere, non ci andrò più; ma pensate che, se mi trovo in mezzo a loro, fanno come voglio io, e si astengono dalle risse e dalle parole cattive.
La mamma era alquanto perplessa, ma, temendo di impedire un bene, dopo un po’ di esitazione lo lasciava andare.
Giovannìno, presago fin d’allora della sua missione fra i ragazzi, correva, con la testa fasciata, al gioco interrotto, atteso ed acclamato da tutti per la sua ingenua allegria e per i suoi tratti spiritosi, e gridava ai compagni in tono di scherzo:
Mi raccomando la testa! … almeno la testa!
« Volete accarezzarmi le spalle! »
Giovannino è orfano dall’età di due anni. Margherita, la mamma, è donna dolce, ma energica e forte. Deve fare da madre e da padre. In un angolo della cucina c’è un bastoncino flessibile, la « verga ». I ragazzi sanno a cosa serve. Margherita non l’usò mai, ma non la tolse mai dal suo posto.
Un giorno Giovannino, per la fretta di correre alla « lippa », dimenticò di chiuder la porta della gabbia dei conigli, dopo avergli dato da mangiare. A sera fu una fatica nera ripescare tutte le bestiole disperse nei prati. Appena Giovannino rientra in casa si sente chiamare: Giovannino, portami la « verga ».
Perché? Cosa ne volete fare? chiede peritoso. Portamela e vedrai!
Giovannino va nell’angolo, prende la verga e la porta alla madre, con aria da martire.
Voi volete accarezzarmi le spalle, lo so! E perché no, se mi fai di queste scappate? Mamma, non lo farò più, mai più!
Giovannino abbraccia la mamma e la verga ritorna al suo posto.
« Perdono, mamma! »
Giovannino e il fratello Giuseppe tornano dal campo, ove si miete. L’afa spacca le pietre e i ragazzi hanno una sete da svenire. Mamma Margherita trae dal pozzo una secchia d’acqua fresca e porge la mestola prima a Giuseppe, che è il più grande.
Giovannino fa il muso. è offeso per quella preferenza. Si volta di scatto, pesta un piede e rifiuta di bere. Senza dir una parola mamma Margherita ritira la mestola e ripone il secchio. Passano minuti gravidi di tensione. Poi:
Mamma, date anche a me da bere? Credevo che tu non avessi sete. Perdono, mamma!
Così va bene! e Margherita porge anche a lui la mestola gocciolante.
Così cresce Giovannino. Piccoletto, bruno, sano come un corno, la risata squillante, la vitalità inesauribile.
Diplomazia di un ragazzo
Un giorno, nel gioco, la « lippa » si rompe. Giovannino e Giuseppe ne tengono una di ricambio sull’armadio di cucina ove sono anche riposte le olle, le bottiglie e i fiaschi di vino. Corre in casa, sale su una sedia e cerca la lippa, ma nella fretta urta nella olla che cade a terra e si spezza, versando tutto l’olio sul pavimento. Confuso, si dà da fare per spazzar via tutto. Ma come farà a tener la cosa nascosta alla mamma? L’olio è così caro!
Pensa e ripensa, va incontro alla madre che è andata al mercato. D’un tratto la vede da lontano. Svelto, taglia un bel ramo da una siepe, lo pota ben bene e corre verso la mamma.
Come state, Mamma? Avete fatto buon viaggio? Sì, Giovannino, e tu sei stato buono? Mamma Margherita intuisce la manovra del piccolo mariuolo. Oh, sentite, mamma, volevo dire… Prendete! e le porge la verga.
Eh, tu me ne hai fatta qualcuna delle tue!
Sì, mamma, questa volta l’ho fatta grossa e merito il castigo.
Che ti è successo?
Ho rotto il vaso dell’olio e narrò il fatto.
Giovannino, mi dispiace per l’olio, ma sono contenta che non dici bugie a tua madre. Un’altra volta sta’ più attento, perché, lo sai, l’olio è caro!
La mamma sorride e Giovannino l’abbraccia.
Disavventura di un cacciatore di nidi
Giovannino è abilissimo nell’arrampicarsi sugli alberi. Pare uno scoiattolo. Un giorno scala una grossa quercia per prendere una nidiata di uccellini.
In un batter d’occhio è alla cima; ma la nidiata si trova all’estremità di un lungo ramo, che facilmente cede sotto i suoi piedi, e si piega.
Giovanni non si perde d’animo. Adagio adagio raggiunge il nido e, ad uno ad uno, si pone in seno gli uccellini.
Fin qui, la cosa è andata liscia; ma il guaio consisteva nel ritornare verso il tronco! Difatti ecco che, ad un tratto, gli scivola un piede, ed egli rimane sospeso per le mani.
La posizione è critica assai. Giovannino lo intuisce e, dopo disperati tentativi per rimettersi sul tronco che sempre più cede, si lascia andare, molleggiandosi con precauzione e s’industria di cader ritto, sulla punta dei piedi e rimbalzando in avanti.
L’acrobazia riuscì a meraviglia; ma restò intontito dallo stramazzone preso da ricordarsene per un bel pezzo.
Gli spiriti folletti
Giovannino è coraggioso ed intrepido. Trovandosi una volta in casa dei nonni materni, sentì parlare di spiriti e dire che in quella casa s’udivano dei rumori più o meno duraturi, ma sempre strani e spaventosi.
Una sera, nel più bello della veglia, si sente sul soffitto un colpo, come di un cesto pieno di bocce; poi, un rumore sordo e lento, che va da un angolo all’altro della stanza.
Tutti tremano.
Che sarà mai?!
Gli spiriti, gli spiriti!
Tutti fuggono; Giovannino solo grida: Voglio andar a vedere che cosa c’è. Prendete il lume.
Alcuni si fermano, prendono dei lumi e lo accompagnano per la scaletta di legno che mette al soffitto. Giovanni spinge la porta, entra e, alzando la lucerna, guarda attorno.
Non c’è nessuno; tutto è silenzio.
I presenti si affacciano anche loro; alcuni anzi entrano; ma tosto dànno un grido e si precipitano fuori.
Un cesto da grano capovolto ondeggiava, si muoveva e avanzava lentamente.
Alle grida il cesto si era fermato; ma poi riprese a muoversi e venne ai piedi di Giovannino. Attento! è un cesto stregato!
Deposto il lume su una vecchia scranna, Giovannino si curva, stende le mani e lo tira a sé.
Lascia!… Lascia!… gli gridano in coro; ma egli non dà retta e coraggiosamente lo solleva.
Là sotto c’era una grossa gallina che la padrona aveva messo in soffitta a covare e aveva dimenticata.
Siccome nel cesto appeso al muro erano impigliati dei granelli di frumento, la gallina, affamata, aveva cercato di beccarli; ma il cesto, rovesciandosi, l’aveva fatta prigioniera.
I discorsi che si facevano di spiriti, di magie e di streghe, e specialmente la paura, avevano fatto credere che si trattasse di cose orribili e diaboliche.
Piccolo giocoliere
Andando ai mercati e alle fiere con sua madre, Giovanni aveva spesso osservato che la gente faceva mucchio intorno agli acrobati e ai prestigiatori.
Ciò parve subito all’intelligente fanciullo un mezzo facile e potente per guadagnare l’attenzione altrui. lncominciò pertanto a prestare la massima attenzione alle loro prodezze; tanto da sorprenderne ogni gesto, scoprirne i trucchi ed apprenderne la destrezza.
Tornato a casa si esercitava a ripetere quei giochi che aveva veduti, finché non fosse riuscito a farli perfettamente.
è facile immaginare le scosse, gli urti, i capitomboli a cui andava soggetto quando, per esempio, voleva imitare i ciarlatani a ballare sulla corda, a fare salti mortali, a camminare con le mani per terra e i piedi in alto; ma con la sua costanza e con la sua agilità, ben presto ci riuscì e divenne abilissimo in ogni sorta di giochi.
Quando fu ben addestrato, cominciò a dare simili spettacoli, specialmente alla domenica.
Attaccava una fune ad una pianta, la raccomandava per bene ad un altro albero a una certa distanza; poi preparava un tavolino, vi collocava sopra una sedia, e stendeva un tappeto per terra.
Quando ogni cosa era pronta e la gente radunata alla gran novità, egli faceva recitare il Rosario, cantare una lode e poi saliva sulla sedia e ripeteva la predica udita la mattina alla Messa, adornandola di fatterelli istruttivi.
Se qualcuno faceva smorfie o brontolava, Giovanni, ritto sulla sedia, come un re sul trono, lo zittiva severamente.
Poi dava inizio allo spettacolo. Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani coi piedi in alto, mangiare gli scudi e andarli a ripigliare sul naso altrui, moltiplicare le pallottole e le uova, cambiare l’acqua in vino, uccidere un pollo e farlo volar via erano le cose più ordinarie.
Sulla corda camminava come per un sentiero; vi saltava e danzava; vi si appendeva ora con un piede, ora con tutti e due, talora con ambe le mani, talora con uria sola, e poi di nuovo si slanciava sopra, con una agilità sorprendente, accompagnando ogni cosa con motti, sortite e amenità piacevolissime.
Tutti ammiravano estatici, ridevano, gli battevano le mani, gli gridavano evviva!…
Ed egli, trafelato e ansante, sospendeva alquanto, occupando gli intermezzi col canto di qualche lode e con la morale di qualche favola.
Uno solo faceva lo gnorri; ed era il fratellastro Antonio, il quale lo scherniva dicendo:
Pagliaccio! Farai il ciarlatano per tutta la vita.
Piccole industrie
Ma per allestire quanto occorreva per siffatti divertimenti occorrevano spese. Giovanni, che era intelligente e sveglio, si aggiustava.
Era bravissimo ad uccellare con la trappola, con la gabbia, col vischio, col laccio. Praticissimo di nidiate, faceva buona raccolta di uccelli di ogni specie, che sapeva vendere assai bene.
Fabbricava cappelli di paglia, canestri e cestelli che portava al mercato.
Anche i funghi e le erbe aromatiche erano per lui fonte di guadagno e perfino le serpi che portava in farmacia.
Aveva imparato a filare stoppa, cotone, lino, fiorone di bozzoli da seta. Riusciva anche a fare calze e maglie sui ferri, e da tutto traeva profitto.
La mamma, che osservava ogni cosa, lo lasciava fare, perché intuiva lo scopo nobile del suo Giovannino, il quale fin da quell’età faceva presagire di sé grandi cose.
Sfida per la prima volta un ciarlatano
Una domenica sera, in una cappella di un’altra borgata, vi doveva essere la predica. La chiesa era ormai piena di gente, quando, all’improvviso, si ode un suono di tromba: era quella di un ciarlatano.
Non fu possibile trattenere i ragazzi e i giovanotti, che si precipitarono fuori; e le ragazze gli tennero dietro. Così fecero a poco a poco gli uomini; e in chiesa non restarono che poche donnette.
Giovanni esce anche lui sulla piazzetta, si mette in prima fila, e sfida il ciarlatano a dar saggi di destrezza. Questi guardò il piccolo con aria di scherno; ma siccome tutti gridavano, accettò la sfida, e propose il gioco della bacchetta magica. Tratta difatti una bacchetta, invitò il ragazzo a provarvisi.
Giovanni, prese la bacchetta, vi infilò il suo cappello; quindi, appoggiata l’altra estremità sulla palma della mano, la fece saltare sulla punta del dito mignolo, dell’anulare, del medio, dell’indice, del pollice, quindi sulle nocche della stessa mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte; indi, rifacendo lo stesso cammino, la bacchetta gli ritornò sulla palma della mano, e la presentò al ciarlatano perché facesse altrettanto.
La gente, che mirava estatica, scoppiò in applausi e tutti presero a gridare:
A voi… a voi!
Non temo di perdere esclamò il ciarlatano. Ed afferrata la bacchetta con sdegno, la fece camminare quasi con ugual destrezza fin sulle labbra, ma qui, avendo il naso alquanto lungo, la bacchetta inciampò, perdette l’equilibrio e scivolò a terra. Le risate divennero omeriche; le grida, le urla, gli schiamazzi toccarono le stelle, e il poveretto, raccolte in fretta le sue carabattole, si eclissò sdegnato.
Allora Giovanni, rivolto alla gente, gridò in tono perentorio:
E ora in chiesa alla predica! Neppure uno mancò.
Addio, piccolo merlo
Avendo un giorno preso un merlo, lo allevò con cura e lo addestrò al canto, zufolandogli all’orecchio note e ariette, di modo che, dopo un po’ di tempo, quell’uccello era diventato il suo divertimento e la sua delizia.
Ma… « Ogni cosa quaggiù passa e non dura! ».
Un brutto giorno, ritornando da scuola, trovò la gabbia vuota. Un gatto l’aveva sfondata e il merlo era sparito. Rimaneva un ciuffo di piume insanguinate. Giovanni si mise a piangere. Sua madre cercò di calmarlo, dicendogli che di merli nei nidi ne avrebbe trovati ancora. Ma Giovanni continuò a singhiozzare. Non gli importava niente degli altri merli. Era « quello lì », il suo piccolo amico, che era stato ucciso, che non avrebbe mai più visto.
Rimase triste alcuni giorni, e nessuno riusciva a farlo ritornare allegro. « Finalmente racconta il Lemoyne si fermò a riflettere sulla nullità delle cose mondane, e pigliò una risoluzione superiore all’età sua: propose di non attaccare mai più il cuore a cosa terrena ».
Pane nero e buon cuore
Giovanni Bosco aveva per compagno di pascolo un certo Secondo Matta, servitorello di una fattoria vicina. Questi di solito riceveva per la colazione un pezzo di pane nero mentre Giovanni riceveva dalla mamma una bella fetta di pane bianco.
Spesso Giovannino diceva a Secondo: Mi fai un piacere?
Volentieri. Facciamo cambio del pane?
Perché?
Il tuo dev’essere più gustoso del mio, o almeno, mi piace di più.
Matta, nella sua semplicità, pensando che Bosco trovasse il suo pane realmente più gustoso, accettava subito. Così continuò per tre primavere consecutive, quantunque il pane nero e duro di Matta non fosse davvero una ghiottoneria. Solo quando fu adulto Secondo Matta si rese conto della bontà di Giovannino Bosco.
L’anima dei divertimenti
Giovannino si rivela l’anima dei divertimenti. Il suo è un vero complesso di leader. Sarà così anche in seguito. Il gioco sarà sempre per lui un mezzo per conquistarsi il cuore dei ragazzi, a fine di bene.
Con la sua fine osservazione e perspicacia aveva imparato molti giochi: carte, tarocchi, pallottole, stampelle, salti, corse; era celebre in tutti, e dava spesso pubblici e privati spettacoli. E questo recava meraviglia, perché in quei tempi tali giochi erano poco conosciuti.
Tutto ciò, senza parlare dei giochi di prestigio, di corse, salti, ginnastiche, nelle quali cose era addirittura insuperabile.
Egli aveva fatto suo il detto: Laetare et bene facere… Lasciar cantar le passere!
Ogni volta che vedeva crocchi di compagni amici o conoscenti e poteva temere che uscissero in qualche discorso poco onesto, bellamente vi si introduceva e cominciava a distrarli con parole cortesi, poi intraprendeva qualche gioco gustoso.
Ora li sfidava a prendere un soldo da terra col dito mignolo e coll’indice della stessa mano; ora a far arco della persona, rivoltandosi totalmente indietro così da toccare il suolo col capo; ora a congiungere bene i piedi ed a chinarsi a baciare la terra senza toccarla con le mani. Altre volte li sfidava a prendere con la bocca un pomo galleggiante in un mastello ripieno di acqua, o una moneta nascosta in un recipiente pieno di farina, oppure a correre e saltare coi piedi legati insieme da una funicella.
Altre volte prendeva a declamare versi, parlare in latino e in greco, improvvisava sermoni, dialoghi, commedie.
Così occupati, più nessuno pensava a discorsi pericolosi; e partivano sempre con qualche salutare pensiero; nei quali Bosco era maestro perfetto.
Sempre ridere e scherzare, ma senza mai peccare!
LO STILLICIDIO DELL’ADOLESCENZA
Ragazzo di stalla alla cascina Moglia
Quando mamma Margherita ventilò la proposta di far continuare gli studi a Giovannino che aveva già 12 anni, esplose l’ostilità del fratello Antonio.
Lui vuole diventare prete? Ma i soldi chi li dà? Giovannino si mise a studiare da solo la grammatica. Antonio non lo può soffrire, gli strappa il libro di mano. Adesso basta. Voglio farla finita con questa grammatica. Io sono venuto su grande e grosso senza masticare sui libri.
Anche il nostro asino non mastica libri ed è più grande di te risponde risentito Giovannino. Antonio si avventò sul fratello. Giovannino fu pestato, nonostante le lacrime di mamma Margherita, la quale meditò a lungo quella notte sulla situazione domestica. Così non poteva continuare. Da donna energica, prese una decisione dolorosa.
Il mattino dopo disse tristemente a Giovannino: è meglio che tu vada via di casa. Tuo fratello non ti può soffrire. Vai a mio nome nelle cascine qui intorno, se qualcuno ti può prendere come « servente » per un anno. Poi si vedrà!
Giovannino con il suo fagottello sulla spalla uscì di casa e si accasò presso i fratelli Moglia di Castelnuovo. Faceva il ragazzo di stalla.
Un giorno il giovane padrone Luigi Moglia condusse seco il piccolo garzone perché l’aiutasse a piantar le nuove viti. Giovanni legava con vimini, vicino a terra, le nuove viti ai rispettivi pali. A un certo punto, stanco del faticoso ed incomodo lavoro, esclamò:
Oh, che male di schiena!
Avanti, avanti, rispose il padrone. Se non vuoi aver male di schiena quando sarai vecchio, bisogna che ti avvezzi adesso che sei giovane.
Giovanni continuò il lavoro e poco dopo, guardandolo con aria sorridente, soggiunse:
Ebbene, queste viti che ora lego, faranno l’uva più bella, daranno il vino migliore e dureranno più delle altre.
Va’ là, boc! (che vuol dire minchione) rispose il Moglia. Fosse vero!
E fu proprio vero. Quel filare produsse ogni anno il doppio degli altri, che con l’andar del tempo perirono e più volte furono rinnovati, mentre le viti del « filare di don Bosco » prosperarono con ammirazione di tutti dal 1828 al 1890, cioè per oltre 60 anni.
Quando, dopo tanti anni, i nipoti dei Moglia si recavano all’Oratorio in Torino, portavano al santo di quell’uva, ricordando il prodigio continuo.
Un altro giorno il vecchio Giuseppe, zio di Luigi Moglia, padrone della fattoria, arriva dalla campagna tutto sudato e con la zappa in spalla. è mezzodì e sulla torre di Moncucco scocca il suono delle ore. Il vecchio si siede a tirare il fiato e vede Giovannino in ginocchio sul fieno che recita l’Angelus, come mamma Margherita gli ha insegnato.
Ma bravo! Noi padroni ci logoriamo la vita sulla zappa gli dice in tono semiserio e il garzone se la prende calma e se ne sta a pregare in pace.
Quando c’è da lavorare, barba Giuseppe, sapete che non mi tiro indietro ribatte pronto Giovannino ; ma mia madre mi ha insegnato che, quando si prega, da due grani nascono quattro spighe. Se invece non si prega, da quattro chicchi nascono due spighe sole. Sarà meglio che preghiate un po’ anche voi.
Salute! conclude il vecchio . Adesso abbiamo anche il prete in casa.
Nella bella stagione il garzone porta le mucche al pascolo e mentre gli animali brucano l’erba intorno, Giovannino, all’ombra di un albero, perde la testa sui suoi libri.
Perché leggi tanto? gli chiede Luigi Moglia. Voglio diventare prete.
E dove li prendi i soldi che ci vogliono, oggi, per studiare?
Se Dio vuole, qualcuno ci penserà.
C’è in casa una bambinetta, Anna, che vedendo Giovannino intento a leggere, invece di badare ai suoi giochi, si indispettisce: Piantala di leggere, Giovanni.
Ma io diventerò prete e dovrò predicare e confessare.
Sì, prete! lo canzona la bimba; un vaccaro tu diventerai!
No. Tu adesso mi prendi in giro, ma un giorno verrai a confessarti da me. E così fu.
La predica ben pagata
Nel novembre del 1829 ci fu una « missione » predicata a Buttigliera d’Asti e v’accorreva anche la gente dei paesi d’intorno. Giovanni Bosco vi andò assiduamente, tutto felice di poter ripetere la sera la predica a mamma Margherita.
Una sera, tornando a casa, si trovò a camminare vicino a un vecchio prete reduce anche lui dalla missione. Ragazzo, gli dice il vecchio prete, con aria bonaria ti do quattro soldi se mi sai dire quattro parole della predica di oggi.
Giovanni attacca e recita l’intera predica, come se leggesse un libro.
Ohi, là, là! Bene! Che scuola hai fatto?
Ho imparato a leggere e a scrivere. Mi piacerebbe studiare ancora ma mio fratello più grande non ne vuole sapere.
E perché vorresti studiare? Per farmi prete.
Ebbene, vieni a stare con me.
Il prete è don Giovanni Melchiorre Calosso, settant’anni, in pensione, che fa il cappellano a Morialdo. Margherita fu lieta di sistemare Gìovannino presso il vecchio prete che gli avrebbe fatto scuola. Giovannino è alle stelle. Trovava di colpo quel che gli mancava: confidenza paterna, senso di sicurezza, fiducia. Passò così un anno in un batter d’occhio.
Orfano un’altra volta
Racconta Giovanni: « Nessuno può immaginare la mia contentezza. Amavo don Calosso come un padre. Quell’uomo di Dio mi portava tanto affetto che mi disse più volte: Non darti pena per l’avvenire, Giovannino. Finché vivrò non ti lascerò mancare niente. E se muoio provvederò a te ugualmente ».
Un disastro fece crollare tutte le speranze.
Un mattino di novembre 1830 Giovanni era a casa da mamma Margherita per farsi cambiare la biancheria, quando arriva una brutta notizia: don Calosso è stato colto da infarto. Il ragazzo vola a Morialdo e trova don Calosso morente che, non potendo più parlare, gli indica la chiave di un cassetto, facendo segno di non consegnarla a nessuno. Per lui la morte del buon prete fu uno schianto.
Vennero i nipoti di don Calosso, per i funerali. Giovanni, scrupoloso e sincero come sempre, consegnò loro la chiave. Erano gente onesta che capiva la situazione e gli dissero:
Pare che lo zio volesse lasciare a te questo denaro… (Nel cassetto c’erano seimila lire). Tu prendi pure quello che vuoi!
Non voglio niente! si sentì gridare Giovanni, con il pianto in gola.
Non era il denaro che gli premeva. Era affranto per la sua situazione. A 15 anni si ritrovava solo, senza maestro, senza padre, senza mezzi, senza una prospettiva per il futuro. « Piangevo inconsolabile » scrive.
Se riesco a farmi prete
Dio è grande. Con l’aiuto di barba (zio) Michele, Giovanni si iscrive all’unica scuola di grammatica (oggi diremmo scuola media) che è aperta a Castelnuovo, il capoluogo di comune.
Qui vede spesso molti preti e li osserva se, per caso, ne trova qualcuno che somigli a don Calosso.
Ma sono diversi. Egli li saluta con deferenza e si aspetta un sorriso, una buona parola. Niente.
A quei tempi si credeva che la gravità sostenuta fosse il vero contegno delle persone di chiesa; e quindi restituivano appena il saluto passando, senza curarsi di lui, che spesse volte se ne lamentava con la madre: Che cosa costerebbe loro una buona parola, un buon suggerimento? Oh quanto bene farebbe alla mia anima!… Gesù non faceva così! Io, vedete, se riuscirò a farmi prete, voglio consacrare tutta la mia vita ai ragazzi. Non mi vedranno mai troppo serio; sarò sempre il primo a parlare e a tenerli allegri.
« Li farò giocare, li farò cantare, E con l’allegria tutti li vorrò salvare! ».
E pareva che già pregustasse la sua futura nobilissima missione.
A scuola, ma con i buoni
Nell’ambiente scolastico ci si ritrova tutti: buoni e cattivi. I ragazzi impegnati di solito sono disciplinati e silenziosi. Gli scapestrati sono spavaldi e fanno chiasso. Giovanni fu adescato da questi: Vieni con noi, facciamo sega (mariniamo la scuola), andiamo in giro a dar fastidio alle ragazze…
Lasciatemi perdere. Non ho denari da spendere. Come! non hai denari?!… Ah, mio caro, è tempo di svegliarsi! bisogna imparare a vivere al mondo! Suvvia, cercati i soldi, prendine dove ce n’è, e godrai anche tu come noi.
A tali suggerimenti, Giovanni rispondeva: Come!… Voi dunque vorreste che io imparassi a rubare?! Ma non sapete che chi ruba fa peccato, e che i ladri e i giocatori fanno trista fine?! Se voi fate questo mestiere andrete a finir male. Via da me, ché non sarò mai vostro amico!
Tanto bastò perché da quel giorno i pochi cattivi lo lasciassero tranquillo, mentre i buoni si assiepavano attorno a lui.
Uno scolaro assai dotato
Giovanni aveva passione per lo studio, buona capacità di apprendere, memoria prodigiosa. Ma il suo maestro s’era ficcato in testa che Bosco, essendo della frazione dei Becchi e figlio di contadini, non poteva che essere scarso di mente. La sua stessa età (16 anni ormai) lo dimostrava.
Un giorno c’era compito in classe. Bosco, che era in prima grammatica, chiese al maestro che gli lasciasse svolgere il compito assegnato a quelli di terza grammatica.
L’insegnate si offese: Come?! E come pretendi, tu che sei dei Becchi… Piuttosto, dimmi un po’, ti pare che questo sia pane per i tuoi denti?
Bosco educatamente insistette di poter fare l’uno e l’altro compito.
Fa’ pure come ti piace! Ma non penserai che io legga le bestialità che metterai in carta!
Il compito di terza era un passo di un autore classico assai scabroso. Bosco si raccolse, lavorò di lena e in breve tempo consegnò la sua traduzione.
L’insegnante prese il foglio e lo gettò sul tavolo, senza guardarlo.
La prego, professore, legga e mi dica gli errori che ho fatto.
Legga, legga, professore! Anche noi vogliamo sentire i suoi spropositi! fece coro la classe. L’insegnante lesse: era una traduzione insolitamente fluida e corretta. Ma egli, deponendo il foglio, disse, in tono di scherno: Io lo pensavo. Bosco ha copiato tutto da capo a fondo.
E da chi avrei copiato, professore? obiettò serenamente Giovanni, indicando i compagni intenti ai loro elaborati ancora incompiuti.
L’albero della cuccagna è una provvidenza
Nelle vacanze, a Montafia, paese vicino a Castelnuovo, c’era la sagra con le consuete attrazioni e giochi, tra i quali l’albero della cuccagna, un abete ben liscio e insaponato, in cima al quale svettava una bella corona di premi, tra i quali una borsa con venti belle lire.
Mi farebbero comodo pensò Giovanni.
Una folla stragrande assisteva allo spettacolo. I giovani del paese, l’uno dopo l’altro, si avvicinavano e tentavano la scalata.
Uno giungeva a un terzo, l’altro a metà; ma poi, non potendone più, scivolavano a terra.
Le grida della gente, che ora incoraggiava ora fischiava, andavano alle stelle.
Giovanni che, intanto, osservava attentamente, notò che tutti i contendenti davano la scalata con rapidità, e la continuavano senza prendere fiato per cui, arrivati a un certo punto, si sentivano venir meno e trascinare a terra dal proprio peso.
Venuto il suo turno, si presentò risoluto in mezzo allo spazio, e prese ad arrampicarsi con calma, incrociando di quando in quando le gambe per annodarle all’albero e sedersi sulle calcagna a riposare.
Gli spettatori che non intendevano il perché di quella manovra si aspettavano di vedere anche lui, da un momento all’altro, ripiombare a terra.
Ma Giovanni saliva, saliva; e allorché fu vicino alla cima che dondolava perché molto sottile, si fece un silenzio generale, che poi scoppiò in frenetico applauso quando, aggrappatosi al cerchio, egli prese ad intascare gli oggetti di premio.
Giunto a terra, sgattaiolò fra la gente e corse giubilante a casa.
Saggio di capacità
Dalla scuola di Castelnuovo, passò al Ginnasio di Chieri. Qui gli toccò un professore molto severo, il quale, al vedersi dinanzi un allievo alto e grosso come lui, scherzando disse in piena scuola: Costui o è una grossa talpa, o un gran talento. La scolaresca rise, e Bosco, sorridendo anche lui, rispose: Qualche cosa di mezzo!… Ho però buona volontà.
Erano passati appena due mesi, e un giorno Bosco aveva dimenticato a casa il libro di testo.
Il professore, dopo avere spiegato e fatto i commenti, accortosi che Bosco non teneva il libro dinanzi, lo chiamò a leggere il testo latino che aveva spiegato.
Bosco non si scompose. Preso in mano un libro qualunque, ripeté a memoria il testo, la costruzione, e tutti i commenti fatti dal professore.
Appena finito, i compagni diedero in un battimani generale. Il professore, andando sulle furie, volle sapere il perché di quel disordine. Allora, presero a dire: Bosco ha in mano un altro libro, e legge e spiega come se avesse il testo.
Il professore volle accertarsi. Prese in mano il libro che Bosco teneva, lo fece ancora proseguire per alcuni periodi, e passando dallo sdegno all’ammirazione, gli disse: Siete un prodigio di memoria; procurate di servirvene in bene!
Prodigio di memoria
Nel leggere tutte queste cose di S. Giovanni Bosco studente, qualcuno potrà pensare che trascurasse lo studio. Tutt’altro. Essendo stato abituato fin da bambino a dormire assai poco, impiegava due terzi della notte sui libri, e talvolta accadeva che l’ora della levata lo trovava ancora coi libri in mano.
Messosi d’accordo con un libraio, si era associato alla lettura dei classici latini ed italiani, e li leggeva non per solo divertimento, ma per penetrarne il giusto senso e la bellezza. Li studiava, e riteneva non solo i punti più salienti, ma spesso l’intero testo.
Non faceva distinzione fra leggere e studiare e con facilità poteva ripetere il contenuto di qualsiasi libro di italiano, latino o greco, letto o udito leggere.
Un giorno, un compagno col quale si preparava ad un esame, gli disse: Bosco, vuoi che scommettiamo chi impara per primo questa pagina?
Proviamo pure.
Lettala appena, il compagno la recitò alla lettera. E adesso a te soggiunse.
Bosco la ripeté tale quale, e poi continuò: E ora sapresti dirla dalla fine al principio? Che stranezza! esclamò il compagno.
Ebbene, io te la dico. E prese a recitarla dall’ultima parola alla prima.
Altre doti sorprendenti e… più che naturali
Nella vita di don Bosco i « sogni » costituiscono un capitolo a sé da studiare attentamente. Per ora tradiscono una capacità prodigiosa di « preveggenza » che riesce molto utile al nostro Amico.
Eccone un saggio.
Una notte, sognò che il professore aveva dettato il compito in classe, e che egli stava eseguendolo. Svegliatosi, balzò di letto e scrisse quel compito che era un testo latino; poi prese a tradurlo con tutta comodità.
Al mattino il professore detta davvero il compito, e precisamente quello sognato da Giovanni. Questi, senza aiuto di vocabolario, e in brevissimo tempo, consegnò il foglio con meraviglia di tutti. Ma la meraviglia crebbe d’assai quando, interrogato dal professore, confessò ingenuamente di aver sognato quel compito nella notte. Altra volta capitò la stessa cosa.
Bosco aveva consegnato in pochi minuti il compito, eseguito a perfezione. Il professore, grandemente ammirato, comandò che gli portasse la brutta copia. Giovanni obbedì.
Il professore aveva preparato quel compito la sera precedente, ma vedendo che era troppo lungo ne aveva dettato solo la metà. Ora, con suo grande stupore, lo trovava tutto intero nel quaderno del ragazzo.
Quale arcano si nascondeva là sotto?! Che Bosco fosse penetrato di notte nella camera del professore a copiarlo, era impossibile. Dunque?!
Bosco candidamente confessò: « Ho sognato ». Cioè, aveva sognato il dettato e la traduzione, e li aveva scritti interi sul quaderno, mentre sul foglio da consegnare si era limitato a scriverne quanto aveva dettato il professore.
Muscoli di ferro
A proposito della vigoria fisica di don Bosco l’autore di queste pagine può attestare quanto segue. Nel dicembre 1884, recatosi don Bosco a S. Benigno per la seconda vestizione clericale dei suoi novizi, passò con loro tutta la giornata, raccontando amenità della sua gioventù. Ad un certo punto, uno dei chierichetti che il santo teneva per mano, si fece a dirgli: Don Bosco, lei, quand’era giovane, vinceva nelle corse i saltimbanchi, ed ora può appena trascinarsi! Peccato che le gambe non servano più!
Veramente, le gambe non mi vogliono più servire, ma le mani mi servono ancora, rispose sempre sorridente il santo. E prese a stringere così fortemente le mani di quanti le avevano fra le sue, che tutti, con grandi stenti, poterono liberarsi, meno il poveretto di cui sopra che fu costretto a chiedere pietà.
Tergendosi allora i sudori, e stropicciandosi le dita livide, esclamò: Davvero che le servono le mani! Ha dei muscoli di ferro… Io ho provato!
Redazione Papaboys
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