Quei programmi con le loro asce sanguinanti, le ricostruzioni in plastico della casa dell’omicidio, le lacrime di chi si è visto strappare tutto e ancora non ha visto il cadavere del suo caro ma ha già un microfono sotto il naso, tutto questo, insomma, non ci viene trasmesso perché i dirigenti Rai o Mediaset non sappiano fare i palinsesti ma, al contrario, proprio perché li sanno fare. Sono signori che sanno fare molto bene il loro lavoro altrimenti non starebbero dove stanno.
È dagli anni 80 che sento parlare di televisione commerciale. Cioè di un prodotto che non sarebbe più al servizio della società, che non sarebbe più mezzo di elevazione culturale o di informazione del cittadino come la RAI di Bernabei ma sarebbe “commerciale”, cioè pensato per vendere, per piazzare dei prodotti e parlare quindi non a degli spettatori ma a dei consumatori. E non penso solo alla vendita degli spazi pubblicitari tra un programma e l’altro ma del programma stesso che ha valore o meno solo se fa vendere di più i propri spazi pubblicitari. Diciamocelo chiaramente: se lo share è il problema vuol dire che il problema siamo noi. Perché la tv siamo noi, non viale Mazzini.
Basterebbe non guardarle, queste trasmissioni grondanti lacrime e sangue, e nel giro di due giorni cambierebbe tutto, stiamo tranquilli. È un continuo di trasmissione e serie televisive che chiudono. Il problema, per fare un nome, non è Barbara D’Urso, ma sono quelli che guardano i programmi che lei conduce. Smettiamo di guardarli, facciamo crollare il gradimento, usiamo il telecomando non per governare volume o contrasto ma per governare i contenuti di quello che guardiamo. Spegnere o cambiare canale è il nostro potere. Le offerte televisive sono sempre più ricche e differenziate e quindi il nostro divano è una vera e propria sedia del CdA della Rai: possiamo decidere noi il prossimo palinsesto. Non facciamo come quelli che si lamentano dello stato e non pagano le tasse: il telecomando nelle nostre mani è la vera stanza dei bottoni. Cairo, Fiorello, D’Urso e Berlusconi sono al nostro guinzaglio. Non noi al loro.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da IlFaroDiRoma
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