In Ungheria la beatificazione del martire don János Brenner.
Educatore dei giovani alla vita buona del Vangelo, rispettoso del prossimo, promotore della concordia nella società e l’armonia nelle famiglie. Il giovane viceparroco ungherese János Brenner fu una delle vittime della ferocia comunista. Lo ha ricordato il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, presiedendo, in rappresentanza di Papa Francesco, il rito di beatificazione del sacerdote martire, martedì mattina, 1° maggio, a Szombathely, in Ungheria.
Quando era bambino il nuovo beato in una recita scolastica aveva impersonato il piccolo martire san Tarcisio, ucciso nel III secolo, durante la persecuzione romana, mentre portava l’Eucaristia ai malati. Il martirio di don Brenner ripropone proprio questo episodio. Infatti la notte del 14 dicembre 1957, ha ricordato il porporato, fu «chiamato da un giovane, che in precedenza era stato suo chierichetto, a portare il sacramento degli infermi allo zio moribondo». Il giovane viceparroco, con la bustina dell’Eucaristia sul petto, subito si mise in cammino. Ma era un tranello. Don János infatti subì un’aggressione violenta e mortale. «Gli furono inferte più di trenta pugnalate — ha spiegato il cardinale — e fu trovato all’alba del 15 dicembre 1957 ai margini del paese di Zsida, con la mano sinistra sul petto a proteggere l’Eucaristia, come il martire Tarcisio».
Don Brenner era «amato da tutti, grandi e piccoli, per la limpidezza del suo sguardo e la giovialità del suo tratto». Nonostante l’oppressione del regime, «scelse con gioia di diventare sacerdote. Era coraggioso. Pur consapevole del pericolo, perseverò nella sua vocazione di servire il Signore e di illuminare i giovani con la parola di Gesù». Poco prima dell’agguato, aveva già subito un attentato ma non si era impaurito. Sapeva di rischiare la vita; ma «perseverò nella sua missione». Anche se aveva «il presentimento che sarebbe stato presto ucciso dal regime». D’altronde, ha detto il cardinale, la sua vita virtuosa lo aveva preparato al martirio. Don János era un giovane sereno. «Pregava con fede, visitava gli ammalati e gli anziani e per tutti aveva parole di consolazione e di conforto». La sua presenza sorridente «infondeva fiducia e gioia». Pur provenendo da una famiglia abbiente, «egli era povero». Spesso diceva che non «potevano fargli del male perché non potevano rubargli niente. Aveva solo un paio di pantaloni rattoppati».
Il prefetto ha ricordato la «feroce persecuzione comunista anticattolica» di quegli anni in Ungheria. La Chiesa veniva «combattuta e umiliata nei suoi pastori e nei suoi fedeli». Il 26 dicembre 1948 «fu arrestato il cardinale József Mindszenty e condannato al carcere a vita». Nell’estate del 1950 «furono deportati circa 2500 religiosi e nel mese di agosto fu chiusa la facoltà di teologia di Budapest». Inoltre, il regime creò anche «un movimento di preti per la pace con l’intento di portare discordia e divisione nel clero». Il 23 ottobre 1956 scoppiò la famosa rivoluzione ungherese a Budapest, «subito soffocata nel sangue con circa diecimila vittime, per lo più giovani studenti e operai». Esiste la documentazione, ha rivelato il porporato, «ancora incompleta, di più di millecinquecento sacerdoti diocesani e seminaristi e di quasi cinquecento religiosi imprigionati e condannati ingiustamente a morte»: alcune di queste vittime sono state già beatificate dalla Chiesa.
D’altronde, ha concluso il prefetto, questa è l’eredità che ci lascia il beato János Brenner: «L’atteggiamento cristiano di fronte ai persecutori è la preghiera per la loro conversione e il perdono delle loro perversioni».
Osservatore Romano, 2-3 maggio 2018
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