“Vince chi sa quel che vuole”, recita un proverbio siciliano. E la Russia sa proprio cosa vuole mentre non lo sa affatto l’Unione Europea. I suoi ministri degli Esteri venerdì scorso a Bruxelles si sono trovati ancor più divisi sul conflitto in Ucraina di quanto non lo siano stati da sempre. L’entrata in scena del nuovo rappresentante della Grecia Nikos Kotzias, «stretto amico del consigliere più ascoltato di Putin» (Alexandr Dugin), si è rivelata paralizzante. E se finora, fra tanti contrasti – tra paesi, come i Baltici e la Polonia, diffidenti sul dialogo con Mosca e altri, come l’Italia, vogliosi di dialogare – si era raggiunto un compromesso, ora non più. Atene intende intrattenere un rapporto privilegiato con Mosca.
Dunque né nuove sanzioni alla Russia né un inasprimento di quelle in vigore dal marzo scorso, soltanto una loro proroga fino al prossimo settembre. Per valutarne il valore politico, oltre che l’efficacia concreta, basta quel che ha detto l’ambasciatore russo presso l’Unione Europea: invitato da Euronews a commentare questa decisione, ha dribblato sostenendo che siccome a soffrire delle sanzioni non è per nulla la Russia, ma l’Europa, spetta all’Unione Europea trarne le conseguenze.
A determinare l’atteggiamento “prudente” dei ministri degli Esteri sarebbe stata, si sostiene, la voglia di aiutare il “gruppo di contatto”, composto da Ucraina, Russia e OSCE, a portare avanti il dialogo sulla cessazione della guerra nella riunione che aveva in programma l’indomani, sabato scorso, a Minsk. Altra delusione, largamente scontata, perché – ha commentato Euronews in un servizio da Minsk – «i leader mondiali che avevano espresso l’auspicio di un accordo per fermare il conflitto devono arrendersi a un fallimento delle trattative».
Per spiegare quel che è successo uno dei negoziatori, l’ex presidente dello stato ucraino Leonid Kuchma, ha detto che i rappresentanti delle forze separatiste «ponendo ultimatum, si sono rifiutati di discutere il piano per un rapido cessate il fuoco e il ritiro delle armi pesanti». Da parte loro uno di questi rappresentanti, Denis Pushilin, ha definito «inaccettabile la zona di cuscinetto tratteggiata a settembre» in quanto le forze separatiste «nel frattempo hanno guadagnato notevolmente terreno». Per consolidare i successi militari il leader dell’autoproclamata repubblica di Donetsk Aleksandr Zakarchenko ha quindi annunciato la mobilitazione generale per disporre così, in tutto, di 100 mila uomini mentre la recrudescenza delle battaglie sta facendo pensare agli Stati Uniti l’invio di «armi difensive» a Kiev.
«La situazione estremamente allarmante» – così si era già espressa alla riunione dei ministri europei di Bruxelles la rappresentante per la politica estera UE Federica Mogherini – sarà all’esame venerdì prossimo dal Consiglio ministeriale della NATO e la settimana ventura, lunedì 9 dal Consiglio dei ministri degli Esteri UE e il 12 dal Vertice europeo. Tre riunioni che dovrebbero dirci come non solo l’Unione Europea ma anche l’Alleanza Atlantica intendono porsi dinanzi alla più grave crisi internazionale del dopoguerra per la violazione dei trattati e per la persistenza di una impietosa e sempre più devastante guerra, sull’orlo di una «catastrofe umanitaria». E dinanzi ai numerosi fallimenti di instaurare un dialogo con il Cremlino che addossa tutte le responsabilità di quel che è accaduto e accade alla Casa Bianca.
Ma soprattutto dinanzi alla evidenza che nel frattempo la Russia ha già vinto la «guerra della diplomazia»: infatti con la sola incombente minaccia del suo veto, ha impedito al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di adottare qualsiasi decisione, vanificando tutte le denunce e accuse – di espansionismo territoriale, violazione dei confini, annessione di intere regioni di altre nazioni, interventi militari, disprezzo dei trattati sottoscritti – ad essa rivolte nelle varie riunioni al Palazzo di Vetro. E riuscendo inoltre a impedire che una nutrita compagine di osservatori neutrali potesse – e possa ancora– monitorare la situazione sul terreno della guerra. Eppure per scongiurare la paventata “catastrofe umanitaria” basterebbe l’invio di una forza di interposizione di Caschi blu dell’ONU.
Il gruppetto di rappresentanti dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa) ha dimostrato di essere nell’ impossibilità di indagare sulla responsabilità di stragi e azioni terroristiche nel territorio in cui operano i miliziani separatisti; e nemmeno sull’arrivo e sul carico delle continue autocolonne dei sedicenti “soccorsi umanitari” russi. Senza dimenticare gli ostacoli da essi incontrati, e opposti pure ai rappresentanti dei paesi maggiormente colpiti dall’abbattimento dell’aereo malese, in particolare all’Olanda, persino per il recupero delle salme dei passeggeri e dei bagagli.
Quanto alla “propaganda”, malgrado le fitte maglie dell’informazione di regime è filtrata la protesta di quelle mamme che hanno denunciato la morte dei loro figli, militari russi in Ucraina, e ne hanno richiesto invano le salme per una degna sepoltura. Si è avuta così la smentita alle bugie russe sul non coinvolgimento militare nel conflitto, ma anche la rivelazione di quel che è stato attuato per mascherare l’identità dei combattenti russi, dalla distruzione dei loro documenti di identità fino alla cremazione delle salme dei caduti.
di Graziano Motta
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