Nel decennio successivo alla sfortunata avventura irachena dell’amministrazione Bush, era di routine (e con qualche ragione) accusare gli Stati Uniti di atteggiamenti imperialisti. Il cambiamento auspicato da una politica estera interventista non si è concretizzato con l’avvento dell’amministrazione Obama nel 2009. L’aumento di truppe in Afghanistan e una guerra dei droni non dichiarata, che si estende dalle pianure del Maghreb al cuore delle montagne meridionali dell’Asia centrale, hanno messo fine a tali speranze. Anche l’Europa non è stata immune da atteggiamenti d’arroganza imperiale, come ha dimostrato l’intervento del 2011 in Libia. Eppure, con l’uscita di scena nel 2012 dell’interventista Nicolas Sarkozy dal Palazzo dell’Eliseo, vi è stata forse la speranza in un ritorno ad una politica estera europea che fosse al tempo stesso prudente ed etica. Tuttavia il perdurare della crisi in atto a Kiev indica che la politica estera europea ha, ancora una volta, abbandonato la prudenza e la cautela in favore di una mentalità a somma zero che potrebbe anticipare un periodo di conflitto e competizione con la Russia per gli Stati dell’ex blocco sovietico.
La crisi che dal Novembre scorso sta dilagando per le strade di Kiev ha le sue radici nel lontano 2008 dalle manovre dei diplomatici europei. Nel Maggio di quello stesso anno, i ministri degli esteri di Polonia e Svezia, Radek Sikorski e Carl Bildt, proposero la costituzione di un Partenariato orientale (Po), che doveva servire come un forum di discussione sul libero scambio e per accordi sui visti tra l’Ue e le nazioni presumibilmente aspiranti al suo ingresso nella periferia sud-orientale dell’Europa. Il Partenariato fa riferimento a “valori condivisi” come il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, e promuove il concetto di “buon governo” e di “sviluppo sostenibile” nella regione. Secondo il ministro Bildt non si trattava di “sfere di influenza”, il che è una interessante affermazione alla luce degli avvenimenti degli ultimi mesi. Considerate le osservazioni del presidente della Commissione europea Manuel Barroso. In una conferenza stampa tenutasi a Milano lo scorso 9 Dicembre, egli ha per due volte fatto appello agli ucraini ad “avere il coraggio ad andare a combattere”. Osservazioni da alti funzionari europei (per non parlare dei contributi di quelli americani) hanno avuto doverosamente eco nei media occidentali che ritraggono il conflitto a Kiev come la manifestazione di uno scontro di civiltà, tra russi ed europei, in quello che alcuni hanno iniziato a chiamare il “cuore dell’Europa”.
La retorica di questo tipo è impressionante per la diplomazia europea del dopoguerra, la quale in genere era stata una coltivatrice affidabile di consensi e di riavvicinamento presso ed intorno i suoi immediati vicini. Con la notevole eccezione del Regno Unito, essa ha cercato di agire come un freno su alcune delle tendenze più sanguinarie della politica estera americana. Ora l’Unione europea sembra stia facendo proprie alcune delle cattive abitudini dell’establishment americano in politica estera. Anche se uno degli architetti del Partenariato orientale, Sikorski è stato costretto ad ammettere di recente che “(…) l’Ue ha seriamente sovrastimato l’attrattiva della sua offerta”, un report del 3 Febbraio del New York Times ha indicato che, anziché lasciarli da soli, i diplomatici americani ed europei stanno progettando di contrastare il pacchetto di salvataggio della Russia, mentre Vladimir Putin è distratto dai Giochi di Sochi. Se questo è il piano, esso indica che questi diplomatici stanno facendo due ipotesi molto discutibili. In primo luogo, essi sembrano credere (contro ogni evidenza storica, economica, e d’altro genere) che il popolo ucraino sia unito nel suo desiderio di entrare in Europa. Manuel Barroso, che dovrebbe conoscere meglio i fatti, ha affermato nella conferenza stampa di cui sopra che semplicemente non era vero che le proteste contro il presidente ucraino Viktor Yanukovich stessero avvenendo “solo nella parte occidentale dell’Ucraina”.
L’idea della Nato d’estendere la sua prima linea nel cuore della civiltà slava dovrebbe essere giudicata come estremamente imprudente. Nel suo libro Soviet Fates and Lost Alternatives, lo storico Stephen F. Cohen scrive che se il progetto neoconservatore di espandere la Nato per includere l’Ucraina avrà esito positivo: Il Cremlino ha pubblicamente avvertito l’Occidente che le “relazioni con la Russia saranno rovinate una volta per sempre, e che il prezzo da pagare sarà alto”. Privatamente, si dice che ciò sarebbe vista come una ‘dichiarazione di guerra’. E così per gli ammiratori del record di pace nel dopoguerra nella costruzione di una società prospera e socialmente giusta attraverso il negoziato e il compromesso ad opera dell’Ue, la voglia attuale di ampliarla sempre più verso Est è sia una perplessità che una preoccupazione. E’ così impossibile immaginare che nel lungo periodo l’Unione europea possa essere in grado di stabilire un modus vivendi con l’Unione doganale eurasiatica? Putin sembra pensare a questa possibilità, perché i leader europei precludono l’idea di un tale risultato? C’è qualche ragione per supporre che l’Ue in qualche modo possa vacillare se non continuerà ad includere la maggior parte degli Stati dell’ex Unione sovietica? L’ultima cosa che dovremmo desiderare è che gli europei inizino a far proprie in politica estera le abitudini espansioniste dell’establishment di Washington a prezzo della propria pace, prosperità e sicurezza. Diversi anni fa, l’eminente studioso dell’Europa, David P. Calleo, scrisse che “(…) l’Ue ha oggi bisogno di istituzioni che le permettano di coabitare amichevolmente con la loro gigante relazione orientale. In caso contrario, sembra vi siano scarse speranze per un felice futuro europeo”. Era vero allora e rimane vero anche oggi. a cura di Giovanni Profeta
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