Lei, Giuditta, insegnante di lettere, donna tutta d’un pezzo di sani principi, cattolica doc. Lui, Pietro, condannato a vent’anni per omicidio e spaccio di droga.
Chi l’avrebbe mai detto? Lei, Giuditta, insegnante di lettere, donna tutta d’un pezzo di sani principi, cattolica doc. Lui, Pietro, condannato a vent’anni per omicidio e spaccio di droga, vita spericolata, una gioventù bruciata negli eccessi e che sembrava destinata a consumarsi nel buio di una cella. Si sono incontrati in maniera imprevedibile, piaciuti, innamorati, sposati. Freschi di matrimonio, ci accolgono nella loro casetta di Lecco, piccola ma da far invidia, col Resegone alle spalle e una finestra da cui s’intravede il lago celebrato dal Manzoni, in una giornata che sembra uscire dalla pagina dei «Promessi sposi» in cui si magnifica il cielo di Lombardia, così bello quando è bello.
Questa è una storia popolata di imprevisti. Imprevista l’occasione che capita a Pietro di poter lavorare in carcere, quando viene trasferito al Due Palazzi di Padova dove da molti anni la cooperativa Giotto ha allestito laboratori per assemblare valigie, biciclette, produrre dolci, gestire un call center e altro ancora, offrendo una possibilità di rilancio umano e professionale a decine di carcerati. Imprevisti gli incontri con i detenuti che nei laboratori lo accolgono col sorriso sulle labbra «in un posto dove di solito ti insegnano a odiare e a coltivare la vendetta – racconta –. La prigione ti toglie la libertà fisica, ma da loro ho imparato che quella interiore non te la toglie nessuno. Puoi sentirti libero da carcerato e prigioniero da uomo libero. E invece lì ho cominciato a sollevare il mio sguardo incarognito e a capire che c’era la carezza di Cristo pronta a posarsi sulle mie ferite e sui miei errori».
Imprevisto anche l’invito della cooperativa Giotto a partecipare come volontario al Meeting di Rimini assieme ad altri detenuti (ovviamente sotto sorveglianza delle guardie di polizia penitenziaria): «Un’occasione per testimoniare che i carcerati sono persone che devono pagare per gli errori commessi, ma non sono definiti dai loro errori. Uomini che possono ricominciare». Imprevisto l’incontro con una giovane insegnante arrivata al Meeting con alcuni suoi studenti, conosciuta per caso e che accende in lui la fiamma di un amore vero, pulito, così diverso da quelli istintivi sperimentati nel suo tormentato passato. È amore a prima vista, tra Pietro e Giuditta. Messo subito alla prova dalle difficoltà oggettive con cui devono misurarsi. Il Meeting finisce e lui deve tornare in cella, l’unico mezzo per comunicare sono le le lettere. Diventano, loro malgrado, innamorati per corrispondenza, con le parole scritte a biro su un foglio che, sole, esprimono i sentimenti. E perciò diventano pesanti e piene di significato. Imparano cos’è l’essenziale, cosa davvero tiene in piedi l’esistenza. «Non le sembri un paradosso – dice Giuditta –: pensandoci oggi, mi accorgo di essere una privilegiata perché non ho potuto piegare la realtà secondo i miei progetti, potevo solo guardare i segni che Dio non ha mai smesso di mandarci. È così che il nostro amore si è purificato, è così che abbiamo imparato cosa vuol dire che la vita non è nelle nostre mani ma di Qualcuno a cui non possiamo che affidarla».
Il 24 febbraio di quest’anno, dopo 11 anni, 2 mesi e 22 giorni di detenzione, Pietro ottiene l’affidamento ai servizi sociali: può scontare la pena a casa. E per un altro dei tanti imprevisto di cui è costellata questa storia trova lavoro come fabbro. Il suo “antico” mestiere, quello di due vite fa, prima di cadere nel vortice della malavita. Il 29 marzo al matrimonio ci sono 400 invitati, compresi alcuni ex compagni dello sposo e un mare di amici che ascoltano commossi le parole del celebrante: «La grazia che chiedete a Dio vale solo per oggi, perciò dovete chiederla ogni giorno. Certi che Lui ve la concederà, come ha dimostrato di fare tante volte in questa storia».
In giugno viene pubblicato «Il cuore oltre le sbarre» (Itaca Edizioni), diario dell’anima in cui Giuditta racconta cosa hanno imparato da questa avventura. «Una delle frasi che mi sono sentita ripetere più volte in questi quattro anni è ’chi nasce rotondo non muore quadrato’. Volevo dimostrare che è un’idiozia: ciascuno può decidere, in ogni momento e circostanza, di tornare a essere uomo, qualunque errore abbia commesso. Può decidere di alzare lo sguardo dalla sua miseria e riconoscere che Dio è un padre buono che mai volta lo sguardo da un’altra parte, che ti viene a cercare anche quando gli hai voltato le spalle. Nessuno è perduto per sempre, nessuno sbaglio è tanto grande da non poter essere perdonato».
Nell’ultima pagina del libro Pietro scrive: «Ero male. Tutto e tutti non bastavano mai. Avevo buttato via tutto. A distanza di 11 anni dall’arresto, con una detenzione che fortunatamente prosegue con affidamento ai servizi sociali, posso dire che la galera è stata la mia salvezza. Col carcere mi sono ritrovato, ho ritrovato la fede e la vita vera, ho trovato l’amore infinito per una donna stupenda e ho scoperto amici che sono dei veri angeli». In casa di Pietro e Giuditta, appeso al muro della sala, c’è un crocifisso in ferro battuto. Lo ha costruito “il fabbro” utilizzando gli scarti di lavorazione dell’officina in cui lavora. «Anch’io ero uno scarto, ma Gesù ha avuto compassione e si è chinato sulle mie ferite. Chi l’avrebbe mai detto?». di Giorgio Paolucci
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