Un anno fa la guerra a Gaza: Caritas, pericolo nuovo conflitto

Esattamente un anno fa Gaza viveva drammatici giorni di guerra, la terza nella zona. L’8 luglio 2014 infatti le forze israeliane diedero il via all’operazione militare ‘Margine di protezione’ in risposta al lancio di razzi e colpi di mortaio da parte di Hamas e di altri gruppi palestinesi armati della Striscia. In 51 giorni di conflitto, fino alla tregua raggiunta in Egitto a fine agosto, morirono oltre 2.200 palestinesi, di cui – riferisce un rapporto delle Nazioni Unite – 1463 erano civili e un terzo di questi bambini; 73 le vittime israeliane, perlopiù militari, e 1.600 feriti. Ma come si vive oggi a Gaza e nella Striscia? Risponde padre Raed Abusahlia, direttore generale di Caritas Gerusalemme, intervistato da Giada Aquilino:

R. – Un anno dopo la fine della guerra, a Gaza e nella Striscia, niente è cambiato. Anche oggi, dunque, si vive una situazione drammatica: tutta la Striscia di Gaza è ancora chiusa, sotto il blocco; la disoccupazione arriva al 60 per cento; la povertà all’80 per cento. La gente, dunque, è delusa perché dice di aver pagato un prezzo molto alto, ma niente è cambiato nella vita quotidiana.

D. – Esattamente oggi cosa serve alla gente di Gaza?

R. – Tutto. In primis hanno bisogno di togliere il blocco, dell’apertura dei passaggi e dell’entrata degli aiuti umanitari e soprattutto hanno bisogno delle materie prime per ricostruire quello che è stato distrutto durante la guerra. Quasi 15 mila case, infatti, sono state completamente distrutte e le macerie non sono state neppure rimosse. La cosa più importante per loro poi è trovare lavoro: non ce n’è. Avranno bisogno di altri cinque anni e di 5 miliardi di dollari per ricostruire quello che è stato distrutto in 50 giorni. Ma niente è successo fino ad oggi.

D. – Cioè: la ricostruzione, valutata in 5 miliardi di dollari, non è partita?

R. – Niente è partito. Prima di tutto non sono arrivati i soldi e poi non entra niente. Dalla parte israeliana, ogni giorno fanno passare 500-600 camion di cibo, di viveri. Le materie prime per le costruzioni, però, non entrano, è proibito. Dalla parte egiziana, il passaggio di Rafah durante tutto l’anno scorso è rimasto aperto per meno di due settimane. Tempo fa ho detto – e non ho paura di ripeterlo – che tutte le parti, sia Israele, sia Hamas o l’Autorità palestinese, devono veramente tornare al Cairo, sedere attorno ad un tavolo ed arrivare ad un accordo per risolvere i problemi che sono alla radice di questo conflitto. Altrimenti non facciamo altro che prepararci ad una prossima quarta guerra, che sarà peggiore di quella dell’anno scorso.

D. – Proprio in questo scenario di emergenza si inserisce questo pericolo di un quarto conflitto di Gaza, che oltre ad Israele ed Hamas potrebbe coinvolgere anche il sedicente Stato Islamico, secondo la stampa internazionale…

R. – Sì, secondo me ambedue le parti si preparano alla quarta guerra, anche se non servirà a niente. L’unica e più grande lezione che dovevano imparare dall’ultima guerra è che non c’è soluzione militare per questo conflitto.

D. – Ma c’è il pericolo di infiltrazioni di jihadisti dello Stato islamico a Gaza?

R. – Certamente, dalla parte dell’Egitto, nel Sinai, la guerra è aperta contro i jihadisti e forse – non posso affermare questo con certezza – sono già a Gaza. La prova in questi ultimi mesi è stata nel fatto che il confronto abbia coinvolto i salafiti, gli appartenenti alla Jihad Islamica e Hamas. Non so chi stia provocando questo conflitto interno, ma non serve a niente.

D. – Qual è l’impegno di Caritas Gerusalemme nella Striscia di Gaza?

R. – Siamo già nella Striscia di Gaza dal 1990 con un centro medico ed una clinica mobile. Siamo poi intervenuti per le emergenze durante e dopo le tre guerre. E adesso, dall’inizio del mese di maggio, abbiamo lanciato un intervento di recupero per gli studenti delle scuole, nell’ambito della salute e della nutrizione. In più – una bella cosa – abbiamo mandato un clown italiano che fino ad agosto tiene spettacoli per i bambini della Striscia di Gaza. Abbiamo fatto, dunque, il possibile. Solo che gridiamo, gridiamo al mondo di aiutarci, ma non si vuole capire che noi siamo in uno stato di emergenza continuamente.

A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana

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