L’ultima meditazione che don José Tolentino Mendonça, ha proposto oggi al Papa e alla Curia, segue il filo conduttore del Discorso della montagna, le Beatitudini, “volto” e “vita” stessa di Gesù a cui invita a conformarsi, per concludere poi con l’auspicio che la Chiesa impari da Maria la compassione, la tenerezza e la cura che la “sete di ogni essere umano domanda senza parole”.
Le Beatitudini, una chiamata esistenziale
Le Beatitudini, quelle che leggiamo nelle pagine del Vangelo di Matteo, spiega don José, “sono più di una legge”: rappresentano di per sé una “configurazione della vita”, una “vera chiamata esistenziale”. Esse disegnano “l’arte di essere qui e ora”, ma indicano anche l’”orizzonte di pienezza escatologica” verso cui convergiamo. A ben guardare però, aggiunge don José, le Beatitudini sono anche l’ “autoritratto di Gesù più esatto e affascinante”, la chiave della sua vita, “povero in spirito, mite e misericordioso, assetato e uomo di pace, affamato di giustizia e con la capacità di accogliere tutti”:
Le beatitudini sono il suo autoritratto, l’immagine di sé stesso che egli incessantemente ci rivela e imprime nei nostri cuori. Ma sono anche il suo ritratto che ci deve servire da modello nel processo di trasformazione del nostro stesso volto, nel quale approfondire l’ «immagine e somiglianza» spirituale che lega ogni giorno il nostro destino al destino di Gesù.
E più siamo il Suo “ritratto” e la Sua ” memoria”, rimarca don José, più lo vediamo per quello che Egli è.
No ad un Cristianesimo di sopravvivenza
La sete di Dio è fare che “la vita delle sue creature sia una vita di beatitudine” . Come? Riscattando le nostre vite con un “amore” e una “fiducia” incondizionati . E’ questo il Suo “metodo”, spiega, è questa la “beatitudine che ci salva”. E’ questo “stupore di amore a farci ripartire”, questa “sete” che riesce a strapparci dall’ ”esilio in cui noi avevamo fatto approdare la nostra vita”:
Per quello non ci basta un cristianesimo di sopravvivenza, né un cattolicesimo di manutenzione. Un vero credente, una comunità credente, non può vivere di sola manutenzione: le serve un’anima giovane e innamorata, si nutre della gioia della ricerca e della scoperta, rischia l’ospitalità della Parola di Dio nella vita concreta, parte all’incontro con i fratelli nel presente e nel futuro, vive nel dialogo fiducioso e nascosto della preghiera.
E’ urgente, prosegue il predicatore, “riscoprire la beatitudine della sete”: la cosa peggiore per un credente è “essere sazio di Dio”. Beati invece quelli che “hanno fame e sete di Dio”: l’esperienza della fede infatti, ribadisce, “non serve a risolvere la sete” bensì a “dilatare il nostro desiderio di Dio, a intensificare la nostra ricerca. Abbiamo forse bisogno di riconciliarci più volte con la nostra sete ripetendoci: ‘La mia sete è la mia beatitudine'”.
La Chiesa come Maria:in ascolto, onesta e al servizio
E ancora alla Chiesa don José si rivolge nell’ultima parte della sua meditazione dedicata alla “beatitudine” di Maria, maestra e modello della Chiesa in cammino. E’importante non guardare alla beatitudine di Maria, afferma, in “chiave astratta”, bensì “reale e concreta”. Il suo dialogo con Dio, al momento dell’Annunciazione infatti, è ” franco”, non lascia fuori emozioni, sorprese e dubbi fino alla fiducia incondizionata e al suo sì. Dio, vuole dire don José, ci salva non “malgrado noi, ma con tutto quello che noi siamo” e questo ci fa “affrontare la vita con rinnovata fiducia”.
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La conclusione è mostrare alla Chiesa lo stile mariano come modello ispiratore del vivere: Maria “ospitale”, in ascolto e “aperta alla vita”; Maria “onesta” nei confronti di Dio; Maria “al servizio” di un progetto più grande. Senza Maria, conclude, la Chiesa rischia di “disumanizzarsi”, di diventare “funzionalistica”, “una febbrile fabbrica incapace di sosta”.
Fonte www.vaticannews.va
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