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Un forziere a garanzia del debito mostruoso

debitopAbbiamo fatto tutti i “compiti a casa”, subiamo la tassazione più alta della Via Lattea, i tassi d’interesse dei nostri Bot sono al minimo storico, l’attenzione ai conti pubblici è invece ai massimi livelli… eppure il debito pubblico italiano macina un record negativo dietro l’altro. Non si fa in tempo a scrivere che ha raggiunto la non invidiabile vetta di 2.150 miliardi di euro, che i ragionieri dello Stato aggiornano in peggio la contabilità: 2.166.

È, semplicemente, insostenibile. Non tanto nella sua consistenza (che pure…), ma nella nostra capacità di farvi fronte. Per quanto da qualche tempo non spendiamo più di quanto guadagniamo – per dirla usando termini da normale famiglia –, non riusciamo ad intaccare la montagna del debito. Per rifinanziarlo, paghiamo interessi che, sebbene bassi, sono appunto calcolati su una montagna. E infine paghiamo salatamente il costo della crisi economica: un Pil fermo o in regressione non aiuta a trovare risorse per fronteggiarlo.

Che fare, dunque? I governi precedenti si erano impegnati in un piano di rientro che a tutt’oggi appare irrealistico: un taglio del debito da 50 miliardi ogni anno, dal 2015 in poi.

Buonanotte. Ci riusciremmo – forse – chiudendo metà degli ospedali italiani. E nel 2016, l’altra metà?
Quindi serve muoversi con urgenza, e questo spiega l’iper-attivismo di un Matteo Renzi che sta giocando tutte le carte, e tutte assieme, per schiodare l’Italia da una posizione assai complessa. Se nel prossimo futuro tornasse la tempesta sui nostri conti, allora sì non rimarrebbero altro che lacrime e sangue, quella “macelleria sociale” sperimentata da Grecia e, in misura minore, da Spagna e Portogallo.

Non è un pericolo astratto: da tempo si discute tra le euro-banche se sia neutro tenere in pancia titoli di Stato fino alla scadenza (linea tra l’altro italiana) o se ci si debba alleggerire dei Bot dei Paesi a forte rischio (linea tedesca). Tifiamo Italia, dunque; ma il pericolo è immenso.

Torniamo al che fare. Da almeno tre anni circolano varie ricette: una sistematina complessiva della macchina-Italia (Enrico Letta, già scartata); una sistematona e poi vedremo (Renzi); un’imposta patrimoniale una tantum ma pesantuccia, che trasferisca una parte della ricchezza privata a servizio del debito pubblico; l’alienazione di (molti) beni pubblici sempre con lo stesso scopo; un taglio drastico della spesa pubblica che liberi risorse, anticipando in piccolo la macelleria sociale considerata ormai inevitabile. E altro ancora.

Come si può facilmente capire, in tutti i casi la minestra non sarà gratis. L’unica soluzione non sanguinosa sarebbe la vendita di una fetta più o meno ampia di patrimonio pubblico, ma non riusciamo nemmeno a vendere l’isoletta di Poveglia, nella laguna veneta, per 500mila euro! E alienare quote di Eni, Enel, Terna ecc. garantirebbe qualche miliardo di euro e basta. Una tantum, comunque.

Attenzione: la mente umana sa ingegnare soluzioni ben più sofisticate di quelle sopra elencate. I beni patrimoniali di un qualche valore potrebbero confluire in un apposito fondo, collegato all’emissione di una colossale obbligazione che avrebbe proprio in quel patrimonio la garanzia e da esso i proventi realizzabili nel tempo e nelle condizioni migliori, per poi poterla rimborsare a tempo debito. Stiamo parlando di almeno 200 miliardi di euro, ma c’è chi si spinge ad ipotizzare fino a 7-800 miliardi. Si ha l’impressione che giocoforza si arriverà ad una soluzione di questo tipo, anche se la “Renzinomics” filasse col vento in poppa: tutte le altre hanno troppe controindicazioni economiche e politiche. Servirebbe solo capire cosa si possa mettere dentro questo enorme forziere, e soprattutto chi lo dovrà amministrare al meglio nei mercati mondiali, per ricavarci più succo possibile. Per lo Stato e gli italiani, non per sé…

Di Nicola Salvagnin per Agensir

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