L’annuncio della salvezza portato da Gesù all’umanità con i suoi gesti e le sue parole risuona ancora oggi nel mondo attraverso la voce, la vita e la testimonianza di uomini e donne che avendo trovato la felicità nel cuore del Figlio di Dio la portano al loro prossimo. Nunzio Sulprizio è un autentico annunciatore della felicità che esplode nel cuore di chi si sente amato, amato da Gesù.
Nacque il 13 aprile 1817 a Pescosansonesco, in Abruzzo, da mamma Rosa e papà Domenico, poveri ma pieni di Dio e perciò pieni di gioia vera. I giovani genitori donarono al figlio gioia e amore in abbondanza, ma lo lasciarono ben presto; a sei anni il piccolo li aveva già persi entrambi. Affidato alle cure premurose della nonna materna, che fu per lui vera madre e maestra di fede, Nunzio scoprì il tesoro della sua vita, la fonte della sua felicità nell’Eucaristia. La nonna infatti, donna di grandi virtù, insegnò al giovanissimo nipote che nell’ostia consacrata c’è Gesù amico delle anime e consolazione di chi soffre.
Il piccolo Nunzio divenne così, a soli sei anni, discepolo dell’Eucarestia: ogni giorno inginocchiato davanti al tabernacolo della sua parrocchia dialogava con il Signore e accoglieva nel cuore la luce e la forza di Cristo. La sofferenza dura e inspiegabile che accompagnò molte volte la vita di Nunzio, non riuscì mai a spegnere la gioia vera che era nata in lui dall’incontro con l’Eucarestia.
Dopo la morte della nonna, quando aveva circa 9 anni, il piccolo venne affidato alle cure di uno zio burbero e violento, il quale lo rinchiuse nella sua officina di fabbro-ferraio, costringendolo al lavoro duro, privandolo della possibilità di andare in chiesa e lasciandolo digiuno per settimane. In queste condizioni, disumane e per di più percosso con violenza ogni giorno, Nunzio, sempre più debole, si ammalò gravemente: una profonda piaga alla caviglia del piede sinistro, formatasi improvvisamente, preannunciava una grave tubercolosi ossea.
Nonostante i segni evidenti della sofferenza fisica, i maltrattamenti dello zio non si attenuarono, anzi si inasprirono contro il poveretto che ormai era solo un peso nella bottega. Eppure anche fra il dolore e i maltrattamenti fisici, Nunzio non perse la gioia interiore che aveva ricevuto dai genitori, dalla nonna, da Gesù, e non si incattivì.
L’aggravarsi delle sue condizioni fisiche suscitò la carità di alcuni compaesani, che contattarono uno zio di Nunzio a Napoli affinché intervenisse. Un lungo e faticoso viaggio condusse il malato nella capitale del regno borbonico. Qui venne accolto in casa di Felice Wochinger, un nobile colonnello della guardia reale, amico dei poveri e dei santi della città, che fu per il ragazzetto un vero padre. Tuttavia la gravità delle sue condizioni di salute richiese un urgente ricovero.
Appena giunto all’ospedale degl’Incurabili, dove rimase per ventuno mesi, Nunzio chiese ai medici: «Prima ancora che mi prescriviate tutte le cure, io desidero fare la prima comunione». Nel nosocomio partenopeo realizzò così il grande desiderio che portava nel cuore da tempo: finalmente poté accogliere anche nella sua carne il Signore che fino ad allora aveva solo contemplato dal tabernacolo.
la palestra dove il giovane poté finalmente dare sfogo al fuoco della carità che ardeva nel suo petto da tempo. Si dedicava agli ammalati più poveri e soli di lui, donava il suo cibo a quanti non avevano niente, aiutava gli infermieri nelle loro occupazioni. Di notte, pregava ardentemente disteso sul pavimento, nascondendosi sotto il letto per non essere visto, e a chi gli chiedeva cosa stesse facendo rispondeva: «Sto pensando a salvarmi l’anima e faccio penitenza per i miei peccati e per quelli del mio prossimo!».
Una notte, per dare sollievo a un ammalato grave che era ricoverato nella sua stessa corsia, Nunzio volle cambiargli le bende che questi aveva alla gola per la piaga causata da un grave cancro, e pregò con lui. L’ammalato, ormai era in fin di vita, trascorse una notte serena e all’indomani i medici, dovendolo dimettere per mandarlo a morire a casa, scoprirono che era guarito, il cancro era scomparso.
Concluso il tempo del ricovero, Nunzio andò a vivere col colonnello nella residenza del Maschio Angioino, castello situato vicino al mare. Tutta la sua vita era cambiata, ma, la direzione del suo cuore ora più che mai era Gesù presente e vivo nell’Eucarestia. Voleva essere di Gesù, consacrarsi a lui nella via del sacerdozio, ma la malattia glielo impedì.
Nonostante le cure ricevute, e il grande affetto del colonnello, il male inesorabile continuò il suo percorso, conducendolo alla morte, il 5 maggio 1836, a soli 19 anni, tra le urla della folla accorsa al castello che lo acclamava santo.
Successivamente numerosi episodi miracolosi indussero il re Ferdinando ii di Borbone a versare la somma di mille ducati per iniziare il processo di beatificazione. Le vicende storiche e politiche tra la metà e la fine dell’Ottocento rallentarono notevolmente la causa, il cui itinerario era tuttavia già segnato dalla provvidenza divina: come non ricordare che Leone XIII, nel proclamarne le virtù eroiche, lo additava ai giovani come modello da imitare. Giovanni XXIII promulgò i decreti sui due miracoli allora richiesti per la beatificazione, col desiderio di essere lui a elevare agli onori degli altari il giovane operaio del quale aveva letto la biografia. Ma soltanto il 1° dicembre 1963 Paolo VI lo proclamò beato, offrendolo come intercessore per i giovani e gli operai.
Nel 2015 venne aperto a Taranto il processo di canonizzazione, per la guarigione inspiegabile di un giovane che a seguito di un grave incidente di moto aveva riportato gravi lesioni cerebrali ed era in stato di grave coma: la mamma del giovane, già devota del beato Nunzio, chiese e ottenne dalla parrocchia di Napoli, dove sono i suoi resti mortali, una reliquia, la pose sul corpo del figlio ed ebbe inizio la guarigione Il prossimo 14 ottobre, in pieno sinodo dei giovani, Papa Francesco lo proclama santo.
Egli ha un segreto da rivelare ai giovani, il suo segreto sono i due grandi amori della sua vita: «Gesù e la Madonna, l’Eucarestia e il santo rosario». Stando davanti al tabernacolo, vivendo il dialogo con il Cristo presente e vivo nel santissimo sacramento, invocando l’aiuto della Vergine Maria con la preghiera del rosario, si può conservare la speranza, si riesce a coltivare e a realizzare i grandi sogni, ma, soprattutto si conquista la libertà interiore. È il santo della porta accanto, che nella semplicità del suo cuore vuole poter dire alle generazioni di giovani che il male si vince col bene, che chi vuole imparare ad amare veramente deve diventare discepolo dell’Eucarestia, che il perdono è la medicina più efficace per i mali che affliggono la nostra anima. La sua affermazione più ricorrente era: «Tutto il bene viene da Dio». Egli non ha smesso mai di amare, mai di pregare, mai di perdonare, ed è stato felice, perché aveva dato il cuore a Cristo.
di Antonio Salvatore Paone*Postulatore
per l’Osservatore Romano, 10/11 Ottobre 2018
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