È il «gesto più impopolare» di tutto l’Anno santo, il «Giubileo dei carcerati». Parola di don Marco Pozza, cappellano del carcere «Due «Palazzi» di Padova. Lo afferma parlando del docufilm «Mai dire mai», firmato dal regista italo-americano Andrea Salvadore per contro di Tv2000. Andrà in onda, in due puntate, il 6 e il 13 novembre, in concomitanza appunto con l’appuntamento giubilare per i detenuti voluto da papa Francesco nella basilica di san Pietro e in programma domenica.
Il documentario, presentato in occasione della 73a «Mostra internazionale d’arte cinematografica» della Biennale di Venezia, è un viaggio attraverso i volti e le storie di chi ha commesso un reato e non solo. Lorenzo, Meghi, Carlo, Armand Davide, Raffaele, Enrico, Chakib, Milva, Kasem, Guido sono dieci visi, storie di vita, ambiti familiari, universi. Dieci persone detenute nel Due Palazzi e alla «Giudecca» di Venezia. Alternano le narrazioni dei detenuti l’intervista al vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla, le esperienze dei cappellani del carcere di Padova, don Pozza, e di Venezia, fra Nilo Trevisanato, il dialogo con i direttori delle case di reclusione Ottavio Casarano (Padova) e Gabriella Straffi (Venezia) e la voce di operatori di altre realtà che operano nelle due «case di pena».
Ne parla a Vatican Insider don Pozza.
Che cosa può dire e trasmettere «Mai dire mai»?
«Il senso di Mai dire mai è tutto scritto nel titolo. Per chi lo guarda da dietro le sbarre è il più invitante degli auguri: anche se nel presente ti vedi nelle vesti di un perdente, mai dire mai rispetto al tuo futuro. Per chi lo guarda da-fuori, somiglia molto a un’avvisaglia, quasi un monito: mai dire mai quando dici “il carcere è qualcosa che non mi appartiene, non mi tocca”. Per entrambi – per chi lo guarda da fuori, per chi lo guarda da dentro – è un invito a tenere i piedi ben piantati per terra: il carcere è una realtà molto più vicina a noi di quanto ciascuno di noi possa immaginare. Questo Docufilm nasce proprio con questo intento: mai dire mai quando pensi che la vita sia tutta sotto controllo.
Un invito alla speranza, quella che non nasconde la miseria della storia ma che dentro la miseria aiuta a scorgere dov’è nascosta la bellezza».
E alle vittime dirette o indirette di chi è in carcere?
«Il pensiero di chi è rimasto vittima di qualche gesto compiuto dalla “mia” gente è, forse, la vera motivazione che anima chi opera dentro le carceri, o almeno chi scrive: impegnarsi per mettere il detenuto nelle condizioni migliori grazie alle quali possa prendere consapevolezza del male compiuto e decidere come organizzarsi il suo futuro. Una detenzione “umana” è la condizione migliore per fare in modo che ognuno si prenda le proprie responsabilità e, laddove le condizioni lo permettano, risarcire il male commesso. Ecco, dunque, che il pensiero delle vittime è l’altra-faccia-della-medaglia qui dentro: sceglierne una omettendo l’altra vorrebbe dire non riuscire a elaborare con onestà, oggettività e giustizia una storia che ci è capitata tra le mani. Fosse possibile mettere una dedica a questo docufilm, non avrei dubbio alcuno. Scriverei: “A chi piange per colpa loro (nostra). Perché nessuna lacrima sia stata versata invano».
Con tutti i problemi che ci sono nel mondo, perché «sprecare energie» con i carcerati?
«Il carcere è un’ammissione-implicita del fallimento di una città: significa che per via legislativa non si è riusciti a garantire il giusto vivere tra le persone. Perché, dunque, interessarsi dei carcerati? Perché sono le “falle” di un sistema che non ha funzionato: riparare le ferite di uno è riparare, in un certo senso, le ferite di un’intera comunità. E poi perché se l’uomo, mentre sconta la giusta pena, riusciamo anche a riportarlo dalla parte del bene, è tutta la comunità che guadagna un uomo-rinato. Un’esistenza riparata. Che poi il Vangelo, nella figura stessa di Gesù di Nazareth, s’interessi del carcerato fino a identificarsi con esso, più che una scelta diventa uno stile: quello di condannare il reato, tentando di salvare chi l’ha commesso. Nonostante tutto».
Ma nel carcere c’è veramente qualcosa di buono, di incoraggiante? Ci può fare qualche esempio?
«Dentro l’inferno c’è sempre qualcosa che inferno non è: questa non è solo un’espressione bellissima di Italo Calvino, è anche quello che appare sotto gli occhi di tutti coloro che, nel quotidiano, investono il loro tempo scommettendo sull’uomo-caduto. Un esempio? L’ultimo. Un vecchio-killer che, dopo quasi due decenni di galera, sceglie di adottare un bambino, dopo essersi accollato una famiglia condannata al lastrico. Il “miracolo” non è il gesto, bensì la motivazione: “Riportare in vita la gente a cui ho tolto la vita non è più possibile – mi dice un giorno – mi rimane la possibilità di difendere la vita di qualcuno che la vita ce l’ha in pericolo”. Mettere l’uomo nelle condizioni di rendersi conto del male commesso e decidere che cosa fare, è il grande lavoro che spetta agli uomini e alle donne di buona volontà».
Quali sono le speranze legate a questo Documentario?
«La mia è una, la stessa che da cinque anni condivido assieme alla mia Diocesi di Padova nel nostro lavorare dietro il ferro e il cemento della galera di Padova: dare la possibilità a sempre più persone di incontrare la vera presenza del carcere, all’interno del carcere. Accettare di confrontare l’idea che ciascuno di noi ha di questa realtà nascosta con la realtà nuda, cruda com’è. È solo incontrandosi che le barriere cadono, i pregiudizi vacillano, la conoscenza si accresce. Con un guadagno immenso: mettere l’uomo che ha sbagliato di fronte alla società che ha tradito, questa è la galera che meglio tende alla rieducazione. Lasciarlo in cella, nascondendolo agli occhi della società, nel tempo può anche diventare una forma di comodità, un’occasione per raccontarsi che, alla fin fine, ciò che ha commesso non è stato poi così male. Questo, una società civile, non se lo può permettere a lungo».
Redazione Papaboys (Fonte www.lastampa.it/Domenico Agasso Jr)
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