Dallo scorso 23 gennaio – infatti – la Chiesa ha riconosciuto il titolo di venerabile, il passo intermedio verso la beatificazione, a padre Aloysius Schwartz, un sacerdote americano che negli ultimi anni tre anni della sua vita sperimentò personalmente tutto il Calvario che la Sla comporta. E lo descrisse anche in un libro intitolato significativamente «Killing Me Softly
», («Uccidendomi lentamente»). Nato a Washington nel 1930, Aloysius Schwartz era un missionario che nel 1957 iniziò il suo ministero nella diocesi di Busan, in Corea: qui diventò presto l’amico degli orfani e dei poveri, che la guerra nel Paese aveva lasciato dietro di sé. Per loro fondò case, dispensari, scuole e anche un ordine di suore – le Sisters of Mary – che ancora oggi seguendone le orme si prendono cura degli ultimi. Nel 1970, sempre a Busan, aprì addirittura un ospedale da 120 posti letto riservato esclusivamente ai poveri, che venivano curati gratis. La fama della sua opera varcò però presto i confini della Corea: il cardinale Sin nel 1981 lo chiamò a Manila e anche qui padre Schwartz avviò progetti importanti per i ragazzi di strada e un programma per i malati di tubercolosi.
Finché non capitò a lui di ritrovarsi all’improvviso dall’altra parte: quella di chi deve dipendere totalmente dalle cure degli altri. Nel luglio 1989 cominciò ad avvertire i primi spasmi, tre mesi dopo gli fu diagnosticata la Sla. Molto in fretta cominciarono a manifestarsi i sintomi più gravi fino a costringerlo sulla sedia a rotelle. «Ora ho pochissimo controllo dell’ambiente che mi circonda – scriveva -. Ho perso completamente la mia indipendenza e quanto pensiamo sia la nostra dignità. Tuttavia non lo trovo devastante. Penso a Gesù, il Signore e Maestro, che aveva ogni potere in cielo e in terra e si è degnato di farsi bambino. Si è affidato totalmente alla Vergine di Nazareth».
Non per questo padre Aloysius – che morì poi a Manila il 16 marzo 1992 – rinunciò a interrogarsi su quella sua condizione. «Alcuni malati di Sla collegati a macchinari salvavita sono considerati degli eroi – rifletteva ad alta voce -. Vengono additati come modello di coraggio, determinazione e di voglia di vivere. Questo è un punto di vista. Ma un’argomentazione altrettanto forte vale per l’opposto. Si può sostenere che sia coraggioso, eroico e nobile anche accettare la morte con calma, dignità e serenità. Tuttavia – aggiungeva Schwartz – le persone a me più vicine, e precisamente le Sisters of Mary, sembrano tutte avvertire con forza che dovrei aggrapparmi alla vita per quanto possibile, anche se potessi farlo solo con le unghie dei miei mignoli. A volte mi fanno pensare che scegliere un altro atteggiamento potrebbe essere interpretato come un comportamento codardo».
Un dilemma che più di vent’anni dopo resta attualissimo. E al quale il sacerdote malato di Sla avviato verso gli altari dava una risposta da uomo di fede: «Il cuore della questione – concludeva – non è ciò che voglio io, ciò che vogliono le suore o che cosa voglia chiunque altro. La domanda vera è: che cosa vuole il Signore? Ed è in questo Spirito che San Paolo scriveva: se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore».
Fonte. Vatican Insaider
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