Le porte sono mille, perché la porta è una. La porta è Lui. Il gesto di Gesù verso la vedova Naim fu un gesto-porta. Quello verso Giairo che piangeva la sua piccola fu un gesto-porta. Le parole con cui fermò le pietre pronte contro l’adultera furono parole-porta. Quando Andrea e Giovanni lo incontrarono per la prima volta e lo guardarono parlare con una profondità e sapienza che li avvinse, sentirono la loro vita aprire una nuova porta. Le braccia spalancate sulla croce ad accogliere tutto il dolore e tutto il cielo furono i battenti divelti del suo cuore.
Il gesto con cui Papa Francesco ha indicato come “Porte Sante” del Giubileo della Misericordia tante porte in giro per il mondo, nelle Chiese e nelle carceri, è potente e semplice. Ha preso un segno e lo ha strappato dalla ritualità che tende a velare tutti i segni, anche importanti. E ne ha richiamato il significato. Le porte sono tante, la porta è una, perché la Porta è lui. Non sono un teologo. Non chiedetemi disquisizioni troppo sottili. Ma so cosa è restare fuori da una porta, so cosa è posare la fronte sui battenti chiusi e piangere, so cosa sono i battenti di un cuore che si aprono. So che occorre traversare spesso una porta che non si sa bene cosa riserva.
Il simbolo della Porta Santa ha radici antiche. Ma la radice primaria sta nell’esser una porta che si apre a chi cerca Dio, segno della apertura del Sorriso dell’Essere a chi lo cerca. L’unica porta che conta. E il Papa ha detto: questa porta è vicina. Non sta in un Tempio lontano, sul monte, ma vicino.
Mentre i potenti chiudono le porte, mentre tanti, troppi non sanno a che porta bussare per avere pane e lavoro, mentre le porte della solitudine si chiudono su troppi giovani, su troppi anziani, mentre infiniti dolori non sanno a che porta picchiare con il silenzio delle lacrime, Papa Francesco dice la “Porta” è aperta, è vicina. Dice quello che la fede del popolo sa da sempre. Dice quel che la fede del popolo cristiano, apritore di porte, sa da sempre. Non siamo figli di un Dio che sta seduto su un monte lontano, dietro porte chiuse, raggiungibili solo a costo di fatiche disumane. Siamo amici di un Dio che ha aperto, che ha mandato il suo Figlio, il suo pezzo di cuore, a essere porta, a scardinare le serrature della legge, a far saltare gli alti battenti della morte. La Porta Santa, si dice, ma è santa perché è un segno di Lui. Il rito conta, ma non è nulla se non introduce a una carne, una casa, a una comunità, a un luogo dove la vita conosce il Volto buono del destino. Se non introduce al cuore-porta di Gesù.
I superficiali vedono in questo moltiplicarsi di porte per il Giubileo un banale “decentramento”. Come se il Papa e la Chiesa fossero una assicurazione che dissemina filiali. Come se la Chiesa fosse un ufficio. Non capiscono, questi piccoli commentatori, che non si tratta di decentramento, ma è la più forte concentrazione. Non è per de-romanizzare la Chiesa. Quelli che dicono così forse non han mai conosciuto la vita di comunità cristiane sparse nei più lontani angoli del mondo, non han conosciuto la Chiesa reale da sempre. La Chiesa reale sa che il Papa non è un capufficio, non è il capo della filiale centrale. Quella che da sempre apre le porte ai piccoli lasciati fuori da tutti. Quella che non chiude i battenti ai più segnati dal dolore e dal male. Non capiscono, questi piccoli osservatori o forse voyeurs, che si tratta invece di un gesto di accentramento, del più grande accentramento possibile: rivolgere i cuori alla presenza di Gesù, dell’uomo-porta di Dio.
La porta è una, è Lui. Gli occhi alla porta che è Lui. Al suo volto che faceva sussultare gli amici mentre abbatteva le porte di un Tempio chiuso, al suo sorriso che faceva crollare gli spalti del male e del rimorso, il suo gesto che alzava i paralitici. Le porte sono mille, la porta è una. I suoi discepoli, la Chiesa, quella conosciuta e quella sconosciuta, hanno replicato mille volte quei gesti. S’è fatta “porta aperta” in giro per il mondo. E in questo Giubileo della Misericordia Papa Francesco lo ha voluto ricordare ai distratti con una decisione semplice e forte. Come a dire: guardate dentro il rito, guardate dove indica il segno. I Papi hanno questo compito, in fondo. Indicare. Essere guide che fanno vedere. E la storia della comunità cristiana è piena di segni, di riti, di liturgie. Ci sono i “segni efficaci” ossia i sacramenti, l’unico caso in cui tra segno e significato v’è coincidenza assoluta. Quel pezzo di pane è realmente il corpo di Gesù, il perdono è il Suo. Poi ci sono i segni che indicano, che non coincidono con il loro significato. Tanti gesti, tanti oggetti, e tutta l’arte. La bellissima Pietà di Michelangelo, un apice del genio umano, è un segno. Mentre i sacramenti rendono presente ed efficace il loro senso, tutti i capolavori dell’arte, come diceva Baudelaire, sono «un ardente singhiozzo» ai piedi della eternità e la indicano. Il Giubileo può essere una grande rieducazione ai segni. Quando oggi si dice che si vive nella età della comunicazione, si dimentica spesso che essa è fatta soprattutto di segni. E la Chiesa è stata maestra di vita attraverso linguaggio e testimonianza fatti di tantissimi segni. Ma, appunto per questo, è anche sui segni che si combatte la “buona battaglia” della fede oggi. L’avvilimento, lo svuotamento dei segni è una delle strade che vengono usati da sempre dagli avversari della scomoda presenza della Chiesa. Così li reinventiamo.
Redazione Papaboys (Fonte agensir.it/Davide Rondoni)
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