Temo, nello scrivere queste parole, di correre il rischio di essere piuttosto banale e di ripetere cose già trite e ovvie per chiunque. Ma vorrei farlo, soprattutto per me, perché certe volte invece che andare dritta per la mia strada mi serve fermarmi a pensare e mettermi un po’ in discussione, e anche per chi mi sta accanto, perché le parole che dico loro siano pensate e non improvvisate.
Come ho spesso ricordato, dalla decisione di condividere pubblicamente la nostra storia, sono nate tante amicizie, tanti legami con persone che hanno a loro volta attraversato storie di sofferenza, alcune molto simili alla nostra, altre molto distanti, ma non per questo meno leggere.
Fin dal momento in cui Filippo ci ha lasciati ho sempre pensato che nessun dolore potesse essere confrontabile con altri: ogni dolore è assoluto, nel momento in cui lo si sta vivendo. Alle persone che mi dicevano: “Ah, scusa, lo dico a te che hai ben altre sofferenze a cui pensare”, rispondevo che anche un mal di denti, o un mal di testa forte, nel momento in cui uno ce l’ha, può sembrare peggio di qualsiasi altra cosa, perfino peggio della malattia e della morte di un figlio. Si ridimensiona la propria sofferenza quando la si supera: quando il mal di testa passa ci si sente piuttosto ingenui ad aver assolutizzato quel dolore, ma mentre si è avvinghiati soprattutto dal dolore fisico, difficilmente si riesce a dire “C’è ben altro” o a relativizzare la propria situazione alla luce di altre.
Un’altra cosa che ho detto spesso è che la lunghezza del percorso che abbiamo vissuto nella malattia di nostro figlio ci ha sicuramente aiutati: penso con grande dolore a quei genitori che hanno perso un figlio da un momento all’altro, per un incidente stradale, ad esempio, che non se lo aspettavano, che erano tranquilli di rivederlo in serata, e che invece non l’hanno visto più. L’accompagnamento che noi abbiamo avuto durante gli anni della malattia, i momenti buoni che abbiamo ricevuto in dono e che rimangono vivi nella nostra memoria, i gesti che abbiamo avuto la grazia di fare nei confronti di Filippo, sono cose che alleviano la nostra sofferenza, che ci confortano, ci rasserenano.
Però, mi dico, come è andata è andata, la verità è che abbiamo sempre perso un figlio.
La verità è che mi trovo (ancora) cassetti pieni di magliette che lui ha indossato, e ricordo benissimo in quali e quante occasioni, e solo la scusa che un giorno andranno bene a Giovanni mi fa sentire un po’ meno in difficoltà per la mia totale incapacità di metterle via.
La verità è che Stefano, da parecchio tempo, mi dice di voler togliere dalla cameretta il letto sul quale Filippo è morto, e devo ringraziare mia suocera, che ogni tanto ci dorme, perché mi fornisce il pretesto per tenerlo ancora lì.
La verità è che con grande sforzo e lavoro su me stessa, l’inverno scorso ho deciso di liberarmi di tutte le medicine scadute (e ne avevo di scadute nel 2012!) antifungini, anticonvulsivi, antivirali, cortisone come se non esistesse un domani, protettori epatici, chi più ne ha più ne metta… e ho fatto un sacco e li ho buttati nel cassonetto speciale accanto alla farmacia… ma non ho staccato dall’anta del mobiletto l’elenco alfabetico corredato di data di scadenza che in un raptus di ordine e precisione avevo fatto, per orientarmi meglio in quel deposito che, come diceva Verdone, copriva tutto “fino al delirio schizoide“.
La verità è che, preparati o non preparati, accompagnati o non accompagnati, se non guardiamo oltre quello che è successo, io e Stefano siamo solo due poveracci che hanno perso un figlio.
Stamattina ho avuto un flash. Ho visto Marta di Betania incontrare Gesù che stava raggiungendo il sepolcro in cui era stato deposto Lazzaro. Io e la mia mamma abbiamo ascoltato questo brano di Vangelo decine di volte, nelle nostre messe feriali, perché il parroco di Frascati lo sceglie sempre in occasione dei funerali.
Lo riporto qui sotto, lo trovo bellissimo:
Giovanni 11,1-5; 17-27
Era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato.
Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, il tuo amico è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato».
Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro.
(…)
Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro.
Betània distava da Gerusalemme meno di due miglia molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello.
Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa.
Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà».
Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà».
Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno».
Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?».
Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo».
Ok, chiedo scusa, ma io ci sono arrivata solo stamattina mentre mi lavavo i denti. Sicuramente sarà già chiaro da tempo a tutto il resto dell’umanità, quindi potete benissimo interrompere la lettura qui.
Solo per me stessa, come su un blocco di appunti, quindi, continuo a scrivere.
Prima di tutto mi piace da impazzire che, mentre Maria resta tranquillamente seduta in casa, Marta non si trattiene e corre incontro a Gesú, spinta da un’urgenza che io conosco bene; sono poi innamorata del versetto 5: “Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro” perché sempre mi sono sentita in colpa per essere stata, nella mia vita, più una Marta che una Maria, per non aver scelto la parte migliore e per pre-occuparmi sempre troppo di tutto. Ma Gesù vuole molto bene a Marta, e sì, certo, anche a Maria, ma per lei l’evangelista non mette il nome proprio, finalmente un punto per Marta!
Marta, poi, dice al Signore: “So che (Lazzaro) risusciterà nell’ultimo giorno”
…vi prego, non leggete, ora che lo sto mettendo nero su bianco mi sembra davvero banale, dico sul serio…
Marta credeva nella risurrezione. Evidentemente al tempo di Gesù era assodato che la vita non finisce con la morte. Che la vita terrena è un passaggio, e che ci sarà un “ultimo giorno” in cui i giusti vedranno la gloria di Dio.
Gesù le fa fare un passo in più, le dice che Lui è la Risurrezione e la Vita.
Gesù inventa la risurrezione della carne. Gesù dà un senso alla morte perché la morte non è l’ultima parola sulla vita, ma non solo sull’anima, non solo sullo spirito, anche sulla carne. Per questo trasfigura davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni, per questo esce dal sepolcro più bello di prima, tanto che non viene riconosciuto.
Va bene, che Filippo sarà il più bello di tutti l’abbiamo già detto.
Però a che prezzo lo sarà? E che prezzo devo pagare io, mamma, affinché lui sia il più bello? Perché qualcuno vive 80 anni e mio figlio solo 8? Quello che vive 80 anni non ha forse più opportunità di mio figlio?
Ma poi, opportunità di fare cosa?
Perché se quello che conta è amare, posso con certezza dire che Filippo ha amato. Se quello che conta è lasciarsi a propria volta amare (grazie Chiara, sei davvero una luce), non ho dubbi che Filippo sia stato (e sia) amato tantissimo.
Se quello che conta è fare del bene, mi sembra che Filippo stia ancora facendo del bene anche se non è più fisicamente qui.
Se quello che conta è avere una vita piena, ecco, nella sua brevità, la vita di Filippo è stata piena, piena di amore, di gioia, di dolore, di paura, di tristezza, di curiosità, di regali, di fratelli, di persone a cui dire “ti voglio bene” e da cui sentirselo dire, di persone che l’hanno fatto ridere e che lui ha fatto ridere, di persone che l’hanno aiutato a crescere e che adesso mi dicono che è stato lui a insegnare loro tante cose, e lo fa ancora.
Ok, noi siamo qui a leccarci le ferite che appena vengono sfiorate non possono fare a meno di sanguinare, e sarà così per tutta la nostra vita terrena.
Ma “Io sono la risurrezione e la vita”, dice Gesù a Marta e a me, “chi crede in me, anche se muore, vivrà”. E io, sinceramente, credo questo.
Allora ben venga il dovermi leccare queste ferite, d’altra parte chi può dire di essere privo di ferite da leccarsi, chi può dire che nella sua vita non ha un dolore, una sofferenza, che ne segna il corso e ne dirige il passo?
E poi, come cito sempre, un giorno “vedremo a faccia a faccia”. Se non dovesse andare come sto dicendo, accoglierò i reclami di tutti. Prima, però, dovete lasciarmi il tempo di andare ad abbracciare Marta.
Fonte it.aleteia.org
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