Un dato appare tuttavia inequivocabile: il motopesca, che, ai sensi dell’Indian Merchant Shipping Act, datato 1958, risulterà non registrato e quindi non battente bandiera indiana, sebbene non autorizzato a navigare in alto mare, era difatti proiettato fino a poche decine di metri dal grosso mercantile, e ciò in una zona ad altissimo rischio pirateria. E non è un organo italiano ad avere certificato la circostanza, bensì proprio la Corte Suprema indiana. Fatto sta che, dopo diverse ore, quando la petroliera italica aveva già tranquillamente oltrepassato il miglio trentotto dalla costa, il suo equipaggio è raggiunto da contatto radio del Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Mumbai (Bombay
), dal quale, senza muovere accusa alcuna, avvisano di avere rintracciato un’imbarcazione di sospetti pirati, invitando a raggiungere la costa, per così effettuare il riconoscimento. Cosicché, il comandante del mercantile italiano, eseguite le dovute procedure, decide di conformarsi alle richieste apparentemente amiche, al fine di collaborare, come si confà a civiltà avanzate. Ed è soltanto al raggiungimento della costa che si scopre il misfatto, ossia che due uomini di un peschereccio locale (tra l’altro, nemmeno riconosciuto dai nostri uomini come la nave pirata in precedenza incrociata) sarebbero dichiarati uccisi da colpi di arma da fuoco, provenienti proprio dalla Enrica Lexie. Tuttavia, quanto accaduto in quelle ore, tra il fallito tentativo di abbordaggio e l’invito rivolto agli italiani di raggiungere la costa, non è dato sapere, figurarsi dimostrare. Così come incomprensibile si manifesta il comportamento ostile delle autorità indiane. Ed è in questo clima decisamente ambiguo che, solo nei giorni a seguire, si scoprirà che un altro mercantile tra quelli menzionati, precisamente l’Olympic Flair, battente bandiera greca, collocato a poco più di due miglia dalla costa, era stato oggetto di ulteriore attacco pirata, anch’esso sventato a seguito di intervento forzoso del relativo equipaggio.Difatti, il caso è regolamentato dalla Convenzione
delle Nazioni Unite, stipulata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e sottoscritta da centocinquantacinque Stati, tra cui Italia ed India. Documento, questo, che ci aiuta, già in prima battuta, a porre l’accento su una questione di primaria importanza, ossia la qualificazione giuridica della zona di mare in cui il fatto è avvenuto; zona che è stata, incontrovertibilmente, individuata ad oltre venti miglia dalla costa. Non risulta quindi difficile qualificare detta fascia marina nella cosiddetta “zona contigua”, ossia quella parte delimitante il “mare territoriale” (quest’ultimo esteso non oltre le dodici miglia dalla costa) e che termina con il raggiungimento del ventiquattresimo miglio dalla linea costiera; ed è proprio dalla fine della fascia territoriale, non già della zona contigua, che ha inizio il cosiddetto “alto mare”. Tant’è che l’articolo 86 della predetta Convenzione stabilisce che le disposizioni in materia di alto mare si applichino “a tutte le aree marine non incluse nella zona economica esclusiva, nel mare territoriale o nelle acque interne di uno Stato”, pertanto espressamente escludendo la zona contigua. Quindi, possiamo cominciare ad appurare, con macroscopica evidenza, che il fatto è avvenuto in acque internazionali, il che tornerà utile per le successive conclusioni. Sempre seguendo la Convenzione di Montego Bay, ciascuno Stato ha il diritto di utilizzare l’alto mare esclusivamente per finalità pacifiche e senza pretesa alcuna di assoggettare qualsivoglia zona dell’area stessa alla propria sovranità; e ciò anche per fini legati alla pesca e, comunque, nei limiti delle condizioni nazionali che disciplinano i diritti medesimi. Precipuamente, ogni Stato stabilisce le condizioni che regolamentano la concessione alle navi della sua nazionalità del diritto di battere la sua bandiera, tenendo un registro che contenga i nomi e le caratteristiche delle navi stesse. Nel caso indiano, la normativa che dispone detti diritti è rappresentata dall’Indian Merchant Shipping Act. Ebbene, il vascello che sarebbe stato utilizzato dai pescatori non risultava regolarmente registrato e, pertanto, non era autorizzato ad oltrepassare il mare territoriale. Ragion per cui, appare più che verosimile la circostanza denunciata dagli italiani, ossia che la presenza degli indiani sul luogo dell’incidente era tutt’altro che improntata a fini legali e pacifici, poiché protesa ad evidente attacco pirata.In altri termini, l’incidente è avvenuto in acque internazionali, sottratte alla sovranità dello Stato costiero (Kerala), ed il peschereccio non era né battente bandiera indiana, né autorizzato a superare il mare territoriale, quindi non legittimato ad essere in alto mare, ove transitava il mercantile italiano. Motivi, questi, che lasciano sbigottiti al cospetto della pretesa di giurisdizione avanzata dal governo indiano, e perseverata a distanza di ben oltre due anni dall’evento. Tant’è che se, con sentenza del 18 gennaio 2013, la Corte Suprema indiana disponeva, ai danni dello Stato del Kerala, l’assenza di giurisdizione, e ciò perché i fatti non sono avvenuti in acque territoriali, al contempo i giudici medesimi affidavano al governo centrale di Nuova Delhi la formazione di una Corte speciale, competente a decidere sul se i marò debbano essere giudicati in India, ovvero in Italia. In sostanza, la Corte Suprema, nonostante la dichiarata assenza di giurisdizione indiana, ha paradossalmente certificato la sua incapacità a riconoscere ciò che risulta lapalissiano, ossia che i nostri ufficiali non possono essere giudicati da un Tribunale indiano, di qualsiasi natura esso sia; difatti, autorizzando il governo locale, unitamente all’Alta Corte di Nuova Delhi, di costituire detta Corte speciale e, successivamente, incaricare la National Investigation Agency (NIA – agenzia federale indiana per la lotta al terrorismo) a compiere le necessarie indagini. Cosicché, i militari italiani, in missione di scorta del mercantile, non creduti dell’attacco di pirateria, si sono visti scandalosamente applicare il cosiddetto SUA Act (Suppression of Unlawful Acts – soppressione degli atti illegali), ovvero la legge locale che punisce il terrorismo internazionale: come essere trasformati da vittime in carnefici! Ma non è tutto. Ed infatti, sviscerando sempre più la Convenzione delle Nazioni Unite, la predetta zona contigua (nella quale – si ripete – si trovava inconfutabilmente la nave italiana al momento del tentativo di abbordaggio ad opera dei pirati indiani), può essere utilizzata dallo Stato costiero soltanto al fine di “prevenire” le violazioni delle proprie leggi, ovvero di punire le violazioni stesse, “commesse nel proprio territorio o mare territoriale”. Più precisamente, è ivi consentito l’inseguimento di imbarcazioni, quando ci siano fondati motivi di violazione della legge; inseguimento che, purtuttavia, deve avere inizio nel mare territoriale, ovvero nella zona contigua stessa (in quest’ultimo caso, solo se siano stati violati i diritti a tutela dei quali detta zona è stata istituita), e non deve continuare qualora interrotto. Eppure, né risulta essersi verificata un’ipotesi di prevenzione della violazione di legge, né, quandanche per assurdo la trasgressione dovesse essere appurata, ciò potrebbe ritenersi avvenuto in acque territoriali. Motivo questo che conferma, una volta in più, l’assenza di qualsiasi diritto dello Stato costiero verso i nostri due ufficiali.
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