Unica soluzione ragionevole: marò liberi subito!

Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, due uomini ed una sola vicenda, un unico episodio con plurime verità; tante realtà quante le giurisdizioni coinvolte, ciascuna però portatrice dei propri preminenti interessi, come se questi ultimi fossero superiori alle vite umane stesse. Correva il giorno quindici del febbraio di due anni or sono, allorché questi uomini, unitamente ad altre trentadue persone, tra cui altri quattro militari, costituivano l’equipaggio della “Enrica Lexie”, una petroliera battente bandiera italiana, proveniente da Galle (Sri Lanka) ed in navigazione verso nord-ovest, precisamente Gibuti. Massimiliano e Salvatore, due fucilieri della Marina Militare Italiana, Secondo Reggimento “San Marco”, non trascorrevano un viaggio di piacere, essendo bensì in missione di protezione della nave mercantile ospitante, costretta a navigare in acque ad elevato rischio di pirateria. Il viaggio si presentava ancora lunghissimo, allorché avevano raggiunto il largo del Kerala, precipuamente lo spazio marino collocato ad oltre venti miglia dalla costa dell’India meridionale. L’orologio locale riportava poco oltre le sedici, ed è in quel momento che le due vite umane si fermano, radicalmente si annientano, e ciò al solo scopo di dare spazio agli egoismi terreni. Nello stesso tratto oceanico stazionavano altre quattro imbarcazioni, per alcuni cinque: “Giovanni”, “Kamome Victoria”, “Ocean Breeze”, “Olympic Flair” e, si diceva in senso dubitativo, “St Antony”, le prime costituenti altrettanti mercantili, l’ultima un peschereccio indiano, con a bordo undici persone, tra cui Ajesh Binki e Valentine Jelastine; due vite, queste ultime, come le prime rinnegate, ma rispetto alle stesse altresì inghiottite dall’abisso della avidità umana. In una delle verità è sostenuto che la prima fosse a poppa, l’altra al timone (entrambe, poi, dichiarate morte), con le restanti nove persistentemente a dormire, nonostante il rumore delle sirene e gli oltre due minuti di spari dichiarati; ma come abbia potuto pronunciarsi chi dormiva, su cose a cui nemmeno avrebbe potuto assistere, resta un mistero. Per la seconda realtà, invece, erano ben cinque le persone individuate a bordo dell’imbarcazione sospetta, che, armate e con fare minaccioso, tentavano di abbordare il mercantile italiano, e ciò benché l’equipaggio di questi avesse scrupolosamente adottato, e continuasse a farlo, ciascuna delle procedure a ciò preposte dalla legislazione internazionale. Tant’è che, i nostri militari, dapprima, attivavano tutte le segnalazioni del caso, sia visive che sonore, dipoi eseguivano alcune serie di spari in acqua, giammai mirando ai corpi, nonostante questi si mostrassero palesemente avversi. Tanto finché i sospetti pirati, allorché quasi in prossimità della Enrica Lexie, decidevano di effettuare inversione di marcia, così allontanandosi.

Un dato appare tuttavia inequivocabile: il motopesca, che, ai sensi dell’Indian Merchant Shipping Act, datato 1958, risulterà non registrato e quindi non battente bandiera indiana, sebbene non autorizzato a navigare in alto mare, era difatti proiettato fino a poche decine di metri dal grosso mercantile, e ciò in una zona ad altissimo rischio pirateria. E non è un organo italiano ad avere certificato la circostanza, bensì proprio la Corte Suprema indiana. Fatto sta che, dopo diverse ore, quando la petroliera italica aveva già tranquillamente oltrepassato il miglio trentotto dalla costa, il suo equipaggio è raggiunto da contatto radio del Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Mumbai (Bombay

), dal quale, senza muovere accusa alcuna, avvisano di avere rintracciato un’imbarcazione di sospetti pirati, invitando a raggiungere la costa, per così effettuare il riconoscimento. Cosicché, il comandante del mercantile italiano, eseguite le dovute procedure, decide di conformarsi alle richieste apparentemente amiche, al fine di collaborare, come si confà a civiltà avanzate. Ed è soltanto al raggiungimento della costa che si scopre il misfatto, ossia che due uomini di un peschereccio locale (tra l’altro, nemmeno riconosciuto dai nostri uomini come la nave pirata in precedenza incrociata) sarebbero dichiarati uccisi da colpi di arma da fuoco, provenienti proprio dalla Enrica Lexie. Tuttavia, quanto accaduto in quelle ore, tra il fallito tentativo di abbordaggio e l’invito rivolto agli italiani di raggiungere la costa, non è dato sapere, figurarsi dimostrare. Così come incomprensibile si manifesta il comportamento ostile delle autorità indiane. Ed è in questo clima decisamente ambiguo che, solo nei giorni a seguire, si scoprirà che un altro mercantile tra quelli menzionati, precisamente l’Olympic Flair, battente bandiera greca, collocato a poco più di due miglia dalla costa, era stato oggetto di ulteriore attacco pirata, anch’esso sventato a seguito di intervento forzoso del relativo equipaggio.

Chi può dire cosa sia realmente accaduto? La versione indiana, oltretutto traballante, è infatti suffragata dalle sole dichiarazioni di tale Freddy Bosco, ossia il proprietario e comandante del St Antony, il quale afferma di essersi trovato a bordo del proprio peschereccio, al largo del Kerala, in fase di riposo, dopo una giornata di intensa pesca. Il medesimo sostiene che gli unici ad essere vigili erano i due uomini uccisi, uno dei quali già rinveniva tale al suo risveglio, mentre l’altro era ammazzato poco dopo. Quindi, solo in quel frangente, egli avrebbe occupato il comando dell’imbarcazione, nonché ripresa la direzione del ritorno. Tuttavia, se l’incidente è appurato essersi verificato alle sedici circa, il medesimo Bosco, fin da subito, afferma che si sarebbe riscontrato alle ventuno. Quale delle due la verità? Alle autorità indiane sembra non interessare, tant’è che esse assumono come prove inconfutabili, a carico degli italiani, le due morti e l’assenza di armi a bordo del peschereccio, come se di queste fosse impossibile disfarsene, ad esempio gettandole in acqua. Perché ci si ostina ad escludere che la nave incrociata dal mercantile fosse realmente occupata da pirati ed armi? Perché respingere categoricamente la possibilità che gli uomini a bordo della nave indiana si siano dati alla fuga, per poi dividersi tra loro, con alcuni di essi approdati sul peschereccio, successivamente traghettato a riva, e gli altri scappati, a bordo dell’originaria imbarcazione, chissà dove? E soprattutto, perché disconoscere la più che plausibile ipotesi che i due pescatori (sempre che tali fossero!) siano stati ammazzati dal “fuoco” greco, a seguito del nuovo attacco piratesco? Questa ultima ipotesi sarebbe, del resto, fortemente indiziata, proprio a seguito delle dichiarazioni di Freddy Bosco, circa l’orario degli eventi. Circostanze queste che possono, dunque, solo confermare come l’intera accusa, e con essa il consequenziale processo, si presentino edificati sulle dichiarazioni di un solo uomo, che, tra l’altro, in un sistema civile, neanche sarebbe stato accreditato di tanto; e ciò per il solo fatto di essere un soggetto manifestamente interessato alla vicenda, rispetto alla quale, ancor più, riveste la indiscutibile posizione delinquenziale, già per avere violato la normativa nazionale in materia di navigazione. In definitiva, a distanza di oltre due anni, si accredita l’instabile tesi di un acclarato delinquente e si preferisce ancora trattenere gli ufficiali italiani in un Paese lontano, privandoli dei loro fondamentali affetti; allorché, invece, l’intera vicenda già si sarebbe dovuta arrestare alla fase delle questioni procedurali, e ciò per l’assoluta carenza di giurisdizione ad opera dello Stato del Kerala. E tanto è disposto dalla normativa internazionale in materia di “diritti del mare”.

Difatti, il caso è regolamentato dalla Convenzione

delle Nazioni Unite, stipulata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e sottoscritta da centocinquantacinque Stati, tra cui Italia ed India. Documento, questo, che ci aiuta, già in prima battuta, a porre l’accento su una questione di primaria importanza, ossia la qualificazione giuridica della zona di mare in cui il fatto è avvenuto; zona che è stata, incontrovertibilmente, individuata ad oltre venti miglia dalla costa. Non risulta quindi difficile qualificare detta fascia marina nella cosiddetta “zona contigua”, ossia quella parte delimitante il “mare territoriale” (quest’ultimo esteso non oltre le dodici miglia dalla costa) e che termina con il raggiungimento del ventiquattresimo miglio dalla linea costiera; ed è proprio dalla fine della fascia territoriale, non già della zona contigua, che ha inizio il cosiddetto “alto mare”. Tant’è che l’articolo 86 della predetta Convenzione stabilisce che le disposizioni in materia di alto mare si applichino “a tutte le aree marine non incluse nella zona economica esclusiva, nel mare territoriale o nelle acque interne di uno Stato”, pertanto espressamente escludendo la zona contigua. Quindi, possiamo cominciare ad appurare, con macroscopica evidenza, che il fatto è avvenuto in acque internazionali, il che tornerà utile per le successive conclusioni. Sempre seguendo la Convenzione di Montego Bay, ciascuno Stato ha il diritto di utilizzare l’alto mare esclusivamente per finalità pacifiche e senza pretesa alcuna di assoggettare qualsivoglia zona dell’area stessa alla propria sovranità; e ciò anche per fini legati alla pesca e, comunque, nei limiti delle condizioni nazionali che disciplinano i diritti medesimi. Precipuamente, ogni Stato stabilisce le condizioni che regolamentano la concessione alle navi della sua nazionalità del diritto di battere la sua bandiera, tenendo un registro che contenga i nomi e le caratteristiche delle navi stesse. Nel caso indiano, la normativa che dispone detti diritti è rappresentata dall’Indian Merchant Shipping Act. Ebbene, il vascello che sarebbe stato utilizzato dai pescatori non risultava regolarmente registrato e, pertanto, non era autorizzato ad oltrepassare il mare territoriale. Ragion per cui, appare più che verosimile la circostanza denunciata dagli italiani, ossia che la presenza degli indiani sul luogo dell’incidente era tutt’altro che improntata a fini legali e pacifici, poiché protesa ad evidente attacco pirata.

In altri termini, l’incidente è avvenuto in acque internazionali, sottratte alla sovranità dello Stato costiero (Kerala), ed il peschereccio non era né battente bandiera indiana, né autorizzato a superare il mare territoriale, quindi non legittimato ad essere in alto mare, ove transitava il mercantile italiano. Motivi, questi, che lasciano sbigottiti al cospetto della pretesa di giurisdizione avanzata dal governo indiano, e perseverata a distanza di ben oltre due anni dall’evento. Tant’è che se, con sentenza del 18 gennaio 2013, la Corte Suprema indiana disponeva, ai danni dello Stato del Kerala, l’assenza di giurisdizione, e ciò perché i fatti non sono avvenuti in acque territoriali, al contempo i giudici medesimi affidavano al governo centrale di Nuova Delhi la formazione di una Corte speciale, competente a decidere sul se i marò debbano essere giudicati in India, ovvero in Italia. In sostanza, la Corte Suprema, nonostante la dichiarata assenza di giurisdizione indiana, ha paradossalmente certificato la sua incapacità a riconoscere ciò che risulta lapalissiano, ossia che i nostri ufficiali non possono essere giudicati da un Tribunale indiano, di qualsiasi natura esso sia; difatti, autorizzando il governo locale, unitamente all’Alta Corte di Nuova Delhi, di costituire detta Corte speciale e, successivamente, incaricare la National Investigation Agency (NIA – agenzia federale indiana per la lotta al terrorismo) a compiere le necessarie indagini. Cosicché, i militari italiani, in missione di scorta del mercantile, non creduti dell’attacco di pirateria, si sono visti scandalosamente applicare il cosiddetto SUA Act (Suppression of Unlawful Acts – soppressione degli atti illegali), ovvero la legge locale che punisce il terrorismo internazionale: come essere trasformati da vittime in carnefici! Ma non è tutto. Ed infatti, sviscerando sempre più la Convenzione delle Nazioni Unite, la predetta zona contigua (nella quale – si ripete – si trovava inconfutabilmente la nave italiana al momento del tentativo di abbordaggio ad opera dei pirati indiani), può essere utilizzata dallo Stato costiero soltanto al fine di “prevenire” le violazioni delle proprie leggi, ovvero di punire le violazioni stesse, “commesse nel proprio territorio o mare territoriale”. Più precisamente, è ivi consentito l’inseguimento di imbarcazioni, quando ci siano fondati motivi di violazione della legge; inseguimento che, purtuttavia, deve avere inizio nel mare territoriale, ovvero nella zona contigua stessa (in quest’ultimo caso, solo se siano stati violati i diritti a tutela dei quali detta zona è stata istituita), e non deve continuare qualora interrotto. Eppure, né risulta essersi verificata un’ipotesi di prevenzione della violazione di legge, né, quandanche per assurdo la trasgressione dovesse essere appurata, ciò potrebbe ritenersi avvenuto in acque territoriali. Motivo questo che conferma, una volta in più, l’assenza di qualsiasi diritto dello Stato costiero verso i nostri due ufficiali.

Oltretutto, ai sensi dell’art. 97 della Convenzione più volte menzionata, “in caso di abbordo (come denunciato dai militari italiani) o di qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare, che implichi la responsabilità penale o disciplinare del comandante della nave o di qualunque altro membro dell’equipaggio, non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari contro tali persone, se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato da cui tali persone hanno la cittadinanza”. E ciò in ossequio al principio di massima collaborazione tra gli Stati, al fine di reprimere la pirateria nell’alto mare o in qualunque altra area che si trovi fuori di una predeterminata giurisdizione. Concetto, questo, elevato a maggior rigore con la disposizione dell’art. 300 della medesima normativa, laddove si stabilisce che gli Stati contraenti devono ossequiare gli obblighi assunti, improntando la loro condotta alla buona fede, evitando qualsiasi abuso di diritto. E non pare certo improntata a buona fede la condotta di uno Stato, allorché questo si appresti ad ottenere l’approdo del mercantile italiano e del suo equipaggio a riva, attraverso l’adozione di artifizi e raggiri, ossia mentendo sulla reale motivazione della richiesta di raggiungere la costa, per poi formulare una infamante accusa. Pertanto, il comportamento delle autorità medesime è stato chiaramente ispirato da malafede, oltreché posto in assoluto spregio del dovere di massima collaborazione, finalizzato all’efficace repressione degli atti di pirateria. In altre parole, l’intera vicenda si pone in relazione ad interessi squisitamente internazionali, non già inerenti a meri rapporti tra due Stati. Motivo per il quale si presenta come macroscopicamente scandaloso il silente atteggiamento delle Nazioni Unite in primis e, dell’intera Comunità Internazionale poi; così come, a distanza di oltre due anni, con un processo ancora in itinere e due uomini perennemente privati delle loro libertà fondamentali, dovrebbe altresì preoccupare la potenziale, forse palese, violazione dei diritti umani. Nell’ultimo mese la sola Unione Europea, in seno al Consiglio, sembra essere intenzionata ad accollarsi le proprie responsabilità, ma c’è ancora tanta strada da percorrere. In ogni caso, ad oggi, la Corte Suprema indiana, con provvedimento del 28 marzo 2014, ha altresì accolto il ricorso proposto dalla difesa dei due marò, tendente ad estromettere dalle indagini la NIA, così sospendendo il processo presso la Corte speciale e rinviando a futura udienza, per consentire al governo locale ed alla NIA stessa di presentare le proprie controdeduzioni, nonché decidere nel merito. L’udienza è ora attesa per il 31 luglio 2014, ma la soluzione ragionevole appare univoca e risponde al grido… Massimiliano e Salvatore liberi subito! di Gennaro Velleca

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