Lo studio della Fondazione Migrantes, giunto alla sua decima edizione, offre cifre molto significative: lo scorso anno sono partiti all’estero 101mila italiani; i cittadini italiani all’estero sono quasi 5 milioni, con una crescita del +49,3% in 10 anni. È il frutto della grande recessione e del mercato del lavoro interno che non decolla. In partenza soprattutto i giovani, i lavoratori e le famiglie. Non mancano persino gli anziani..
C’è un’Italia che non va, che stenta a riprendersi, che è soffocata dalla morsa della disoccupazione quella che si nasconde dietro gli oltre 100mila nostri concittadini italiani che lo scorso anno hanno preferito lasciare il Paese. Sono in prevalenza uomini (56,0%), celibi (59,1%), tra i 18-34 anni (35,8%), partiti principalmente dal Nord Italia per trasferirsi, soprattutto, in Europa. Sono i dati che emergono dal Rapporto “Italiani nel Mondo” presentato a Roma dalla Fondazione Migrantes e giunto quest’anno alla 10ma edizione. Dunque l’Italia non ha cessato di essere, come lo era in passato, Paese di emigrazione. Sono circa 5 milioni i cittadini italiani residenti all’estero e, pur restando indiscutibilmente primaria l’origine meridionale dei flussi, si sta progressivamente assistendo a un abbassamento dei valori percentuali del Sud a favore di quelli del Nord Italia. La Sicilia con 713.483 residenti è la prima Regione di origine degli italiani residenti all’estero ma il confronto tra i dati degli ultimi anni, pone in evidenza una marcata dinamicità delle Regioni settentrionali, in particolare della Lombardia (+24mila) e del Veneto (+15mila). L’Italia – si legge nel Rapporto di Migrantes – sta vivendo una delle più lunghe recessioni economiche e occupazionali. I giovani, i lavoratori, le famiglie, persino gli anziani sono in partenza. L’analisi del decennio mostra chiaramente questa escalation: in 10 anni si è passati dai 3.106.251 iscritti all’Aire (dato del 2006) ai 4.636.647 del 2015 con una crescita del +49,3% in 10 anni.
Ai giovani piace partire. Tra i numerosi dati del Rapporto colpisce la forte crescita degli studenti italiani che scelgono di partire per un periodo di studio all’estero: sono 1.800 i ragazzi partiti con Intercultura per l’anno 2014-2015. Anche tra i laureati, il fenomeno dell’emigrazione per ragioni lavorative è tendenzialmente in crescita negli ultimi anni. Si parte perché all’estero ci sono maggiori prospettive di guadagno (7,4 in media contro 6,2 su una scala 1-10) e di carriera (7,4 contro 6,3), di flessibilità dell’orario di lavoro (7,7 contro 6,9) e di prestigio (7,6 contro 6,8). Le mete preferite sono Regno Unito (16,5%), Francia (14,5%), Germania (12%) e Svizzera (12%). Ma se i giovani partono, l’Italia si trova a diventare un Paese per vecchi. È il professor Alessandro Rosina, docente di demografia all’Università Cattolica, a sottolinearlo. Un Paese colpito da una bassa natalità e con un calo demografico pari a 250mila giovani ogni anno. Ad aumentare sono invece due categorie di giovani: i neet (“giovani che non studiano e non lavorano” ed “emblema dello spreco italiano del capitale umano”) e gli “expat” con titoli di studio medio-alti, per questo maggiormente esposti alla disoccupazione, quindi “bravi ma senza prospettive” e dunque pronti a espatriare. L’Italia – secondo il professore – presenta così “la peggiore combinazione” per un Paese che ha un disperato bisogno di ripresa: tra “neet” inattivi e scoraggiati ed “expat”, cioè talenti che se ne vanno. Come rispondere alla sfida? “Certamente non fermando l’uscita”, risponde Rosina. Ma cercando di “valorizzare il capitale umano sostenendo la scelta di chi vuole rimanere” e “favorendo chi vuole tornare” con progetti che “possano attirare non solo chi ha fallito ma soprattutto chi ha avuto successo perché possa riportare e rimettere in circolo nel nostro Paese competenze e professionalità maturate all’estero”.
Occorrono politiche di investimento. Presente all’incontro anche il senatore Claudio Micheloni, presidente del Comitato per le questioni degli italiani all’estero del Senato, che ha detto: “Si emigra per bisogno, perché è il nostro Stato a non funzionare”. Ed ha chiesto: “Il migrante, non è forse lo specchio della nostra cattiva coscienza, colui che ci mette di fronte alle realtà del nostro Paese che non ci piacciono e di fronte alle nostre responsabilità mancate?”. “L’anno scorso – ha fatto notare monsignor Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes – sono arrivati in Italia 33mila lavoratori e sono partiti all’estero 101mila italiani. Significa che ad un lavoratore che arriva, corrispondono 3 italiani che se ne vanno. Questa è la vera crisi del nostro Paese”. “Non riprendere questo dato significa non leggere politicamente e culturalmente la nostra situazione e, quindi, non costruire politiche familiari, lavorative e scolastiche che sappiano leggere questa realtà”. Come guardare al futuro? Mons. Perego delinea alcune vie da intraprendere: accompagnare i migranti con un associazionismo capace di creare rete; allargare la cittadinanza “in un momento in cui stanno emergendo chiusure e muri e un possibile blocco di Schengen”; guardare con occhi nuovi alla mobilità umana perché “chiusure e paure non fanno che impoverire ulteriormente e disumanizzare la storia delle migrazioni che ancora oggi sono solcate da sofferenze. Il nostro coordinatore di Londra – ha poi concluso Perego – ci parlava di due suicidi di italiani a Londra al mese. È un tema che chiede più politica e più cultura della migrazione”.