L’orrore, lo sgomento, la pietà, l’incredulità di fronte alla strage – l’ennesima strage di innocenti – commessa a Orlando, Florida per mano di un “lupo solitario” (sempre che si confermi tale) di nome Omar Mateen non ci esula da due considerazioni. La prima: nel solo 2015 negli Stati Uniti ci sono state 373 stragi con un bilancio complessivo di 475 morti e 1.870 feriti. Stragi, non omicidi, visto che si considera strage un episodio violento in cui sono coinvolte almeno quattro persone. Perché se dovessimo contare il numero di americani morti per ferite da arma da fuoco, il bilancio del 2015 salirebbe a poco meno di 13mila.
Un fenomeno che non è sfuggito alla statistica: c’è perfino un osservatorio (lo si può consultare presso il sito www.massshootingtracker.org) che scrupolosamente scrutina le stragi in tempo reale: quella di Orlando è la numero 176 del 2016, dove a tutt’oggi si è raggiunta la cifra rispettabile di 285 morti e 649 feriti ecumenicamente distribuiti in tutto il territorio dell’Unione, da Chicago a Milwaukee, da Philadelphia a Baltimora, da Denver a Nashville. Per compiere una strage come quella di Orlando non è sufficiente un fucile a tappi, occorrono armi da guerra, revolver, pistole, di cui in Stati come la Florida la vendita è libera, senza licenza, senza alcuna registrazione.
Chi percorre in automobile le interstate americane e le tante blue highways, le famigerate “strade blu” secondarie che collegano i centri minori si imbatte con facilità in chioschi pubblici su cui accanto al logo della Coca Cola o dei confetti M&M’s campeggia la scritta “ammo”, che sta per ammunition: qui il viaggiatore può acquistare le munizioni per la sua Colt o per il suo MP5. Anche Omar Mateen disponeva di un fucile d’assalto. La sua professione di guardia in un carcere minorile glielo consentiva. Occorre altro per riportare tragicamente alla ribalta l’annoso dibattito sul possesso di armi sancito dal Secondo emendamento della Costituzione americana («the right of the people to keep and bear Arms», il diritto dei cittadini di detenere e portare armi) e riaffermato da una sentenza del 2008 della Corte Suprema? Un dibattito che divide e che in queste ore tragiche sembra coniugarsi in un facile nesso: libero accesso alle armi e radicalismo islamico producono stragi come quella di Orlando. È vero e al tempo stesso non è vero: le stesse statistiche che rilevano l’ecatombe di civili inermi ci dicono che il saldo fra le vittime del terrorismo jihadista e quelle del terrorismo radicale di destra per ora è in perfetto equilibrio. Non è – nonostante l’immancabile rivendicazione del Daesh – il jihadista con passaporto americano la causa principale di quei massacri, ma le armi di cui disponeva.
E qui veniamo alla seconda considerazione, forse la più urgente. Mateen, trentenne di origini afghane, vigilante per una società di sicurezza, era stato ripetutamente segnalato all’Fbi dai colleghi di lavoro per certe frasi di intonazione razzista inneggianti alla violenza. Per due volte, nel 2011 e nel 2012, si era recato in Arabia Saudita e l’Fbi aveva accertato un legame fra Mateen e Moner Mohammad Abusalha, il primo cittadino americano a commettere un attentato suicida in Siria, che viveva come lui a Fort Pierce, in Florida. L’inchiesta dei federali fu chiusa. Mateen, si concluse, non rappresentava una minaccia.
Una falla, l’ennesima, dell’intelligence americana. Come di quella francese all’epoca di Charlie Hebdo a Parigi, come di quella belga nella strage di Bataclan. Eppure Mateen era un uomo violento, esaltato, radicalizzato al punto da essersi proclamato militante del Califfato pochi minuti prima di morire. Averlo lasciato libero di allestire la propria personale campagna di odio è la macchia più grave per l’agenzia federale che ha il compito statutario di proteggere i cittadini dal terrorismo e dagli attacchi esterni e che grazie al Patriot Act – una legge federale del 2001 – ha ampi e anche discussi poteri di intercettazione e di sorveglianza telematica, nonché di accedere ad archivi e database.
Tutto inutile, nel caso del giovane afghano, nonostante il Daesh, in rotta da Sirte a Aleppo a Raqqa, proclamasse un ramadan di sangue per tutti i militanti sparsi per il mondo.
In molti sostengono che questa sia ormai una guerra civile fra il fondamentalismo islamico e la modernità, dominata da un odio per la diversità di cui il Daesh ha fatto una bandiera, incitando a una violenza incondizionata, nichilista, distruttiva nei confronti del kafir, il miscredente, l’infedele. Una violenza che non risparmia nessuno e che si scaglia sui bersagli più inermi ma più rappresentativi della civiltà della convivenza: i giovani, le donne, i gay, i teatri, le arene rock, gli stadi e su un piano di odio specifico le chiese cristiane, le sinagoghe, le moschee ‘non allineate’ al verbo fondamentalista e le scuole dove s’impara il rispetto e la libertà. Una viltà spregevole, quella del Califfato, mai disposto a battersi ad armi pari, sempre pronto a decapitare statue, abbattere croci, templi, icone, simboli. Una violenza cieca e vile che tuttavia fa proseliti non solo fra l’islam più radicale, ma anche fra le menti vuote dell’ultradestra occidentale (attendiamo fiduciosi che Donald Trump rincari ulteriormente la dose promettendo di schedare tutti musulmani d’America). Probabilmente è vero che è in corso una guerra civile. Una guerra che dobbiamo combattere, non solo in America, ma dovunque vi sia spazio per la libertà di pensare, di vivere, di muoversi, di allestire la propria vita come si crede con civile responsabilità. E non bisogna aver paura delle parole per dirlo.
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it)
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