Pontefice, costruttore di ponti. Se c’è una vicenda della storia contemporanea che sottolinea il significato di questa parola viene naturale, all’indomani della storica svolta tra Washington e L’Avana, pensare proprio al confronto tra Stati Uniti e Cuba. Se infatti per 55 anni, il braccio di mare che separa l’isola caraibica dalle coste della Florida è sembrato largo come un Oceano, i Pontefici non hanno mai creduto che la distanza fosse incolmabile. Anzi, in fedeltà alla missione iscritta nel loro nome, hanno posato pazientemente un mattone dopo l’altro per costruire quel ponte idealmente inaugurato dal primo Papa latinoamericano.
Dopo la rivoluzione castrista, nel pieno della Guerra Fredda, Cuba – per la sua posizione strategica – diventò molto più di Cuba. Un destino a tratti drammatico come si colse in tutta la sua evidenza durante la “Crisi dei missili” dell’ottobre del 1962. Proprio in quell’occasione quando, concordano gli storici, l’umanità fu a un passo dall’annientamento nucleare, Giovanni XXIII offrì un àncora ai contendenti con il Messaggio trasmesso dalla Radio Vaticana. Un richiamo a tutti gli uomini di buona volontà e, in particolare, ai leader di Usa e Urss, Kennedy (primo Presidente cattolico statunitense) e Krusciov. Con la voce rotta dalla commozione, Papa Roncalli leva una supplica accorata per la pace:
“Noi – afferma San Giovanni XXIII dai microfoni della nostra emittente – supplichiamo tutti i Governanti a non restare sordi a questo grido dell’umanità. Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace. Eviteranno così al mondo gli orrori di una guerra, di cui non si può prevedere quali saranno le terribili conseguenze” (25 ottobre 1962).
L’impressione generata da quell’intervento è enorme. E’ come se la coscienza del mondo avesse alzato la voce per ribellarsi ai rumori sinistri della macchina bellica messasi di nuovo in moto. Una voce che si traduce, un anno dopo, nella Pacem in Terris, l’Enciclica sulla pace di Giovanni XXIII che ancora oggi rappresenta uno dei documenti più vibranti sull’insensatezza della guerra.
Se dunque nel 1962 un Papa pone le fondamenta del ponte tra Cuba e Stati Uniti, 36 anni dopo un altro Papa, Giovanni Paolo II, edifica l’arcata inimmaginabile fino a pochi anni prima. E’ il 21 gennaio del 1998 quando il Pontefice che ha contribuito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica arriva nella terra della Revolucion guevarista. In segno di rispetto per l’ospite d’eccezione, Fidel Castro non indossa la tradizionale uniforme militare ma un doppiopetto blu. Fanno il giro del mondo le immagini del Lider maximo che sorregge Karol Wojtyla, già provato dalla malattia. Nei suoi discorsi, come nelle sue omelie, in terra cubana, il Pontefice ribadisce che i cristiani di Cuba hanno diritto a vivere liberamente la propria fede, un diritto che nessuna ideologia può pretendere di eliminare. Quindi, parlando a una folla immensa di cubani, nella Piazza “José Martí” dell’Avana, pronuncia quell’esortazione storica che oggi appare profetica:
“Chiamata a vincere l’isolamento – sottolinea San Giovanni Paolo II – Cuba deve aprirsi al mondo e il mondo deve avvicinarsi a Cuba, al suo popolo ai suoi figli, che ne rappresentano senza dubbio la maggiore ricchezza. E’ giunta l’ora di intraprendere i nuovi cammini che i tempi di rinnovamento in cui viviamo esigono, all’approssimarsi del Terzo Millennio dell’era cristiana”! (25 gennaio 1998)
Se quindi Papa Wojtyla chiede a Cuba di aprirsi, al tempo stesso esorta più volte gli Stati Uniti a porre fine all’embargo che attanaglia l’isola. Un “no” convinto all’embargo ripreso anche da Benedetto XVI che, ricevendo nel 2009 l’ambasciatore cubano presso la Santa Sede, denuncia che questa misura unilaterale “colpisce in modo particolare le persone e le famiglie più povere”. Tre anni dopo, sulle orme del suo predecessore, Papa Benedetto è a Cuba dove incontra il presidente Raul Castro ma anche, privatamente, il fratello Fidel. Ancora una volta, il Papa chiede che “si eliminino posizioni inamovibili” che “tendono a rendere più ardua l’intesa ed inefficace lo sforzo di collaborazione”.
“Concludo qui il mio pellegrinaggio – afferma il 28 marzo all’aeroporto dell’Avana – ma continuerò a pregare ardentemente affinché continuiate il vostro cammino e Cuba sia la casa di tutti e per tutti i cubani, dove convivano la giustizia e la libertà, in un clima di serena fraternità”. Quella libertà e quella fraternità fra i popoli statunitense e cubano che oggi, anche grazie ai Pontefici, non sembra più un’utopia.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana
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