È il giorno più brutto per il presidente americano Barack Obama. Alle elezioni di “metà mandato” di ieri, infatti, l’opposizione del Partito repubblicano ha conquistato la maggioranza al Senato e incrementato quella alla Camera, vincendo anche in Stati in bilico come l’Iowa, il Colorado e la North Carolina. I candidati repubblicani hanno prevalso inoltre nelle battaglie per i governatori degli Stati. L’esito viene interpretato, da New York a Washington, fino a Los Angeles e Chicago, come un pesante giudizio dell’elettorato sull’operato della stessa presidenza.
Le ragioni della disfatta democratica. La sconfitta del partito del presidente Barack Obama non è stata una sorpresa. Primo perché le elezioni di metà mandato sono tradizionalmente un referendum sul presidente e da mesi Obama è in calo di popolarità (indebolito da spinosi e mal gestiti dossier internazionali come la questione ucraina, le preoccupazioni legate allo Stato Islamico e più recentemente all’ebola). Secondo perché diversi Stati in cui si votava sono tradizionalmente repubblicani. Terzo perché il bacino elettorale che tipicamente va alle urne per le “Midterm election” non è lo stesso in gioco alle presidenziali: giovani, donne, afroamericani e ispanici – elettori in gran parte del Partito democratico del presidente – votano molto meno rispetto a quando si decide per l’inquilino della Casa Bianca. Eppure, anche considerando tutti questi fattori, la débâcle democratica è andata oltre le previsioni.
Il voto dei cattolici. Come sempre accade, i cattolici americani non hanno votato in modo unitario. “Quando parliamo di cattolici negli Stati Uniti ci riferiamo a circa un quarto della popolazione”, spiega al Sir William Dinges, ordinario di Storia alla Catholic University of America. “Ma questo non è assolutamente un gruppo omogeneo. C’è un ampio ventaglio di opinioni. Non esiste quindi un blocco elettorale cattolico che sostiene un certo partito”. In alcuni Stati, però, i cattolici sono stati determinanti. È il caso del Colorado, un “battleground state”, uno Stato conteso dove si è discusso molto di aborto in campagna elettorale. E alla fine “ha vinto il candidato pro-life repubblicano”, Cory Gardner, in lizza contro il senatore democratico in carica Mark Udall. “Questo è stato un risultato sorprendente”, osserva Dinges: Obama aveva vinto in Colorado sia nel 2008 sia nel 2012.
“Lame duck”. A far restare a casa gli elettori democratici è stata soprattutto l’economia. Se infatti la ripresa americana è nettamente più robusta di quella europea o asiatica (e la disoccupazione negli Stati Uniti è scesa al 5,9%), “l’americano medio resta scettico: non vede miglioramenti tangibili a livello di mercato del lavoro e ritiene che il presidente Obama non abbia fatto abbastanza”, è il giudizio dello studioso. Alla luce di questo risultato Obama è ufficialmente un “lame duck”, un’anatra zoppa, che nel gergo di Washington vuol dire un presidente dimezzato. Difficile pensare – come sottolineano in queste ore tutti i media statunitensi, che rimarcano l’esito elettorale in chiave anti-Obama – che con la Camera, e ora anche il Senato, in mano ai repubblicani il presidente possa centrare qualche riforma. Anche quella dell’immigrazione che doveva costituire il piatto forte del suo secondo mandato sembra adesso un miraggio (benché servirebbe pure ai repubblicani per recuperare consensi nel serbatoio elettorale ispanico).
I vescovi e l’immigrazione. Proprio la riforma sull’immigrazione è stata incoraggiata a gran voce dalla Conferenza episcopale americana, preoccupata dai ben 11 milioni di Latinos senza documenti, e in particolare dal cardinal José H. Gomez, arcivescovo di Los Angeles e presidente del Comitato immigrazione della Conferenza episcopale americana, il disegno di legge è da mesi impantanato. Ora gli annunci del dopo voto parlano di aperture repubblicane a leggi bipartisan, ma i fatti degli ultimi anni lasciano poche speranze. Il che aumenterà ulteriormente la sfiducia degli elettori americani verso una Washington iperpolarizzata e ritenuta sempre più incapace di agire nell’interesse dei cittadini.
Presidenziali 2016. In questo quadro caratterizzato dall’immobilità, gli occhi sono già puntati al 2016. Tra i repubblicani in pole position per la corsa presidenziale ci sono tra gli altri il senatore della Florida, Marco Rubio, quello del Texas, Ted Cruz, e il governatore del New Jersey, Chris Christie. In più c’è l’incognita Jeb Bush, ex governatore della Florida, figlio e fratello di presidenti: se decidesse di partecipare diverrebbe l’uomo da battere. Tra i democratici, benché non abbia ancora annunciato la sua candidatura, in pochi ritengono che Hillary Clinton rinuncerà al sogno di diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti. E sarebbe un candidato formidabile. Alcuni prospettano già uno scontro tra le dinastie, i Clinton contro i Bush. Ma l’America riserva sorprese, Obama insegna.
da New York, Damiano Beltrami per Agensir
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