R. – Noi viviamo pacificamente e serenamente con i musulmani. E’ vero che in altre parti del mondo non è così, ma da noi in Marocco, Algeria e Tunisia la situazione è normale. Sì, siamo per lo più stranieri, spesso di passaggio, ma le nostre Chiese sono molto giovani. Ad esempio in Marocco, dove la popolazione cristiana conta 30mila persone, l’età media dei fedeli è di 35 anni. Ma le nostre comunità hanno subìto un’evoluzione, in particolare in Libia, dove la situazione è drammatica e dopo i recenti avvenimenti la maggior parte dei cristiani, per lo più filippini o medio-orientali, è dovuta partire. Per cui adesso a Tripoli è rimasto solo il vescovo – mons. Martinelli – insieme a un piccolo gruppo di filippini. Negli altri tre Paesi della regione viviamo nella normalità, lavoriamo con i nostri fratelli musulmani, viviamo in mezzo a loro e abbiamo libertà di culto, a condizione però di esercitarla solo nei luoghi di culto. Il problema è che il proselitismo è un reato e in questo senso l’esercizio della libertà religiosa non è sempre facile.
D. – Lei ha parlato della Libia che ha vissuto anch’essa quella che è stata chiamata la “Primavera araba”. Questi sconvolgimenti hanno cambiato la situazione dei cristiani, in particolare dei cattolici, e i rapporti con le comunità musulmane locali?
R. – Le Primavere arabe hanno cambiato molto. In Libia prima di questi avvenimenti c’erano 150mila cristiani che erano tutti stranieri, soprattutto lavoratori del settore petrolifero, mentre oggi ne sono rimasti 2-3mila. Tutti gli altri sono dovuti partire. Sono anche partite le religiose chiamate a lavorare negli ospedali dal precedente presidente Gheddafi. Non restano che 4-5 sacerdoti in tutta la Libia con un vescovo a Tripoli e uno a Bengasi. Dunque la situazione dei cristiani è stata sconvolta dalla lotta tra le diverse fazioni politiche nel Paese.
D. – Ci sono dei timori per quanto sta accadendo nei Paesi vicini, con l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico in Libia?
R: – Sì, con quello che è successo ai 21 copti assassinati in Libia, ci sono timori, ma credo che non bisogna vivere sempre nella paura, non bisogna farsi prendere dal panico. Il mio grande timore è che si cerchi di risolvere i problemi con la forza. Prima degli ultimi avvenimenti in Libia, la Conferenza episcopale aveva scritto una lettera aperta in cui diceva che non bisogna ricorrere alla forza, ma che bisogna sondare tutte le vie del dialogo e so che alcune associazioni cristiane europee non erano d’accordo con quanto abbiamo scritto.
D. – Un altro problema che riguarda la vostra regione è quello dell’immigrazione. Come affrontano le Chiese locali questo dramma?
R. – E’ vero: siamo nel cuore di una periferia terribile. Dalle coste libiche quest’anno sono passati più di 150mila migranti sub-sahariani per andare verso Lampedusa, in Italia. Per la Chiesa in Libia è difficile fare qualcosa, mentre in Algeria, Tusinia e Marocco, con la Caritas, facciamo quello che possiamo per accompagnare questi migranti, ascoltarli, sostenerli, restituire loro la speranza. Poi decidono loro se portare a termine il viaggio. Qui in Marocco ad esempio, abbiamo il confine con l’enclave spagnola di Melilla: sappiamo che ogni giorno ci sono centinaia di migranti che cercano di passare la frontiera. Ne conosco molti che hanno tentato dieci volte e ricominciano. Sono partiti e non hanno più nulla da perdere. Penso che l’Occidente debba guardare da vicino quello che accade nei Paesi sub-sahariani, cercando di lavorare per il loro sviluppo.
D. – Questo vuol dire appunto che non si tratta di chiudere le frontiere dell’Europa, ma di cercare piuttosto delle soluzioni locali in questi Paesi africani?
R. – Non si devono chiudere le frontiere.
D. – Ma è quello che fa l’Europa …
R. – La gente passerà comunque. Ma è vero che il problema è quello dello sviluppo di questi Paesi, perché c’è bisogno di educazione, di salute, lavoro, soprattutto per i giovani. Nei Paesi del Maghreb abbiamo decine di migliaia di studenti sub-sahariani . Perché vengono da noi? Perché l’Europa non ne vuole molti e perché da loro non possono fare gli studi che vorrebbero fare. Quindi cosa si può fare per aiutare questi giovani a fare questi studi nei loro Paesi? Se possono studiare in patria sarà poi più facile per loro trovare lavoro e contribuire allo sviluppo dei loro Paesi.
D. – Quali sono le altre sfide pastorali comuni nei vostri Paesi oggi?
R. Siamo al centro di due sfide pastorali, direi due periferie nei nostri Paesi. C’è la periferia dell’incontro dei cristiani con i musulmani. Questa è una grande sfida per il mondo di oggi. La seconda sfida è quella delle migrazioni, perché i nostri quattro Paesi sono tutti corridoi migratori. Dunque, da un lato, dobbiamo lavorare su queste persone vulnerabili che passano attraverso i nostri Paesi, ma allo stesso tempo avvertire l’Occidente e i Paesi sub-sahariani, sensibilizzare le Chiese e anche i politici dei nostri Paesi di origine. Penso quindi che bisogna lavorare sui due fronti. Per noi sono queste le nostre due sfide principali oggi. Per questo è necessario che i cristiani siano ben formati, non avere paura dell’Islam e poi impegnarsi con determinazione per lo sviluppo del Marocco, della Tunisia, dell’Algeria e della Libia in modo che possano diventare motori di sviluppo anche per altri Paesi. Abbiamo quindi una grande responsabilità e abbiamo bisogno dell’Europa: non di un’Europa sorda e cieca, ma di un’Europa che abbia un cuore aperto e che sia piena di speranza.
D. – In occasione della vostra visita ad limina, che cosa tenete a far sapere all’opinione pubblica, agli altri cristiani e anche al Vaticano?
R. – Vorrei dire a voce alta che si può vivere felici e essere cristiani in un contesto musulmano, quindi vivere la nostra fede, ma allo stesso tempo lavorare insieme ai nostri fratelli musulmani, avere fiducia in loro e con loro guardare con speranza al futuro dei nostri Paesi. Quindi non dobbiamo assolutamente essere pessimisti : anche perché è da noi che sono iniziate le “Primavere arabe”, in Tunisia che oggi ha una costituzione che riconosce la libertà religiosa. E questo non era scontato. Dunque ci sono segni di speranza e non possiamo pretendere che questi Paesi in piena evoluzione facciano in qualche anno quello che le altre democrazie occidentali hanno fatto in diversi decenni.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana
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