La Madonna è raffigurata seduta in trono, tra le sue braccia tiene amorevolmente Gesù Bambino, il quale a sua volta è seduto sulla gamba sinistra della Madre. La mano destra del Bambino tiene il panneggio del manto della Madonna all’altezza del seno. Il capo della Madonna come quello del Bambino sono aureolati, però solo il capo del Bambino risulta ancora avere la corona d’oro donata dal Capitolo di San Pietro in Vaticano nel 1712; l’immagine della Vergine ne è stata privata dal furto sacrilego del 1799. Alcuni angeli contornano la Sacra Immagine della Madonna e nella parte superiore, ai lati del trono, troviamo due piccoli medaglioni all’interno dei quali era conservato “il latte materno della Vergine” e nell’altro un frammento del suo velo. Sul fondo del quadro vari rombi di ottone contengono i gigli angioini. Osservando il quadro appare subito chiara ai nostri occhi la differenza tra le figure del Bambino e degli angeli, e quella della Madonna. La sua regale rappresentazione sembra volerne riconoscere a pieno titolo l’importanza, attorno alla quale ruota lo spirito di devozione che anima i monaci e in particolar modo i pellegrini che giungono al Santuario. È Lei la vera protagonista, il suo sguardo dolce rapisce e dona un indicibile senso di pace. La Madonna di Montevergine originariamente nasce come ritratto e viene successivamente completata la sua immagine, se ne ha avuto riscontro durante il suo restauro quando furono scoperte sotto il primo strato tracce di pittura precedenti. I primi cambiamenti il quadro li subisce nel 1661, quando sul capo della Vergine e del Bambino vengono poste due ulteriori corone oltre a quelle già esistenti; nel 1712, ne vengono collocate addirittura tre, mentre nel 1778 furono poste delle lamine dorate intorno al trono. Dopo il furto della notte tra il 17 e il 18 maggio del 1799, l’icona della Vergine fu vistosamente ornata di larghe collane di ottone dorate e di pettiglie che crearono non pochi problemi per la loro rimozione durante il restauro nel 1960 realizzato ad opera del Laboratorio di Restauro della Soprintendenza alle Gallerie e alle Opere d’Arte della Campania. Oggi è possibile visionare tali oggetti nel “Museo dei Cimeli storici di Montevergine”.
Nella Basilica Nuova e più precisamente nella Sala di San Guglielmo sono conservati gli ex-voto che nel corso degli anni i monaci fecero applicare direttamente sull’immagine, per esaudire il desiderio dei fedeli che di anno in anno offrivano voti alla Madonna. Le varie leggende, i miracolosi ritrovamenti, le grazie e i miracoli concessi dalla Madonna contribuiscono a conferire a questo luogo di pace e di preghiera una luce affascinante e misteriosa, che spinge ormai da molti secoli numerosi fedeli in devoti pellegrinaggi, soprattutto in occasione delle principali celebrazioni delle feste mariane.Nel XII secolo, cuore del medioevo cristiano, San Guglielmo incarna una delle immagini più elevate dell’uomo di Dio. Apostolo e pellegrino, perennemente in marcia, Guglielmo dedicò la sua vita, per molti aspetti avventurosa e fantasiosa, alla diffusione del Vangelo in ogni luogo e presso ogni genere di umanità. Nell’ambito del cristianesimo medioevale, egli rappresentò un anello di congiunzione fra le esperienze dei monaci che guidarono la riforma dell’ordine benedettino dagli eremi di Camaldoli, Vallombrosa e Chiaravalle, e il ritorno ad una religiosità più viva e spontanea, semplice e popolare, meglio adatta a interpretare il modello evangelico. Per questo motivo Guglielmo è stato spesso affiancato alla figura di San Francesco, sebbene il “poverello” di Assisi nascerà soltanto quarant’anni dopo la morte del fondatore di Montevergine. La sua opera di apostolato nel Meridione di Italia precorre quella di San Francesco, tuttavia un’iconografia e una letteratura troppo scarse, sorte comune a quella di molti altri precursori, non ci restituiscono oggi la giusta misura della vita e delle opere di San Guglielmo da Vercelli. La vera storia del Santuario di Montevergine comincia con la consacrazione della prima chiesa da parte del Vescovo di Avellino, quando (come si esprime il primo biografo) «edificata la chiesa e raccolto ivi non piccolo numero di persone per il servizio di Dio, dietro il parere comune, Guglielmo decise che la suddetta chiesa fosse dedicata ad onore di Maria, Madre di Dio e sempre Vergine».
Perciò il Santuario di Montevergine deve la sua origine non già ad un’apparizione della Madonna o a qualcosa di simile, ma a quello spirito ascetico mariano di San Guglielmo e dei suoi discepoli, che, non senza ispirazione divina, vollero costruire a Montevergine un faro di devozione alla Madonna, consacrandole su quel monte una chiesa e dedicandole il primitivo cenobio. Guglielmo, acceso il fuoco dell’amore di Dio e della Vergine sul sacro monte, si porta altrove consigliere di potenti, soccorritore di umili, operaio infaticabile nell’edificare le case del Signore e dei suoi religiosi, che dappertutto gli fanno intorno spessa corona. La sua laboriosa giornata terrena si chiude il 24 giugno 1142, nel Monastero del Goleto, presso Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino). Ben presto alle dipendenze del Monastero di Montevergine sorsero molti altri monasteri, sviluppandosi in tal modo la Congregazione verginiana. I secoli XII-XIV segnarono il massimo splendore di questo istituto: papi, re, principi e grandi feudatari fecero a gara nell’arricchire Montevergine chi di beni spirituali, chi di munifici doni, chi di larghi feudi e di protezione sovrana. La Congregazione ebbe molto a soffrire durante il Grande Scisma d’Occidente (1378-1420), e così cominciò a declinare, prendendo addirittura una piega vertiginosa dal giorno in cui l’infausta commenda (1430-1588) fece passare la responsabilità del governo abbaziale su uomini che non avevano altro interesse che di percepire le laute prebende dei benefici ad essi assegnati. Questa fatale discesa si cercò di frenare dopo il 1588 con un secondo periodo di risveglio e di vitalità; ma in seguito intervennero altri fattori, che distrussero quasi completamente la Congregazione nelle due fatali soppressioni del 1807 e 1861. A stento si salvò il Santuario, come a tenere accesa per i secoli la devozione alla Madonna e al suo servo fedele, Guglielmo da Vercelli.
Un alone di mistero avvolge la storia dell’icona di Montevergine, molte leggende si susseguono nel tempo attribuendole vari autori, nonché molteplici intercessioni grazie alle quali il quadro sarebbe giunto presso l’omonimo Santuario.
Dal Seicento si è dato credito alla leggenda che voleva tale icona dipinta fino al petto direttamente dalla mano di San Luca a Gerusalemme, esposta poi ad Antiochia e infine trasportata a Costantinopoli, l’attuale Istanbul. Durante l’VIII secolo, in seguito all’insediamento di Michele Paleologo sul trono di Costantinopoli, l’imperatore Baldovino II, in fuga, avrebbe fatto recidere la testa del quadro portandola con sé durante il suo esilio. La salvò, così, dalla sicura distruzione da parte degli iconoclasti che in quel periodo davano una caccia serrata a tutte le immagini sacre. L’immagine del volto della Madonna sarebbe così giunta, per via ereditaria, nelle mani di Caterina II di Valois, che dopo averla fatta completare da Montano d’Arezzo, nel 1310 l’avrebbe donata ai monaci di Montevergine, facendola collocare nella cappella gentilizia dei d’Angiò. Durante il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) l’autorità ecclesiastica affidò ad alcuni critici e storici dell’arte il compito di stabilire la corretta paternità del quadro e di determinare il periodo in cui la Sacra Immagine sarebbe effettivamente giunta a Montevergine. La leggenda della Sacra Icona perse presto consistenza perché contestata in diversi punti.
Anzitutto nel 1310 Caterina II di Valois aveva appena dieci anni e sposerà solo tre anni più tardi il principe angioino Filippo II di Taranto; risulta difficile credere quindi che Caterina così giovane potesse aver commissionato il completamento del dipinto a Montano d’Arezzo. Inoltre un pergamena conservata a Montevergine dimostra la presenza del quadro presso il Santuario già alla fine del Duecento. In un suo studio del 1964, il padre Giovanni Mongelli, della Congregazione di Montevergine, ipotizzò che la paternità del quadro potesse essere attribuita al famoso pittore romano Pietro Cavallini, o alla sua scuola, sia per la presenza di alcuni elementi stilistici distintivi della sua tecnica pittorica -come l’intonazione bizantina e il tipico modo di panneggiare, sia per la sua accertata attività in quel periodo presso la corte dei d’Angiò.
La presenza dei gigli angioini intorno all’immagine della Vergine ne legano indiscutibilmente l’origine pittorica a quella casa regnante. Unanimi nel giudizio gli storici hanno confutato quindi tutte quelle leggende sorte nel Medioevo che attribuiscono al ritrovamento della tela l’intercessione divina della Madonna; così come quella che voleva la Sacra Immagine giunta proprio al Santuario perché il mulo che la trasportava si oppose ai comandi del cavaliere ponendosi sulla strada che conduceva a Montevergine. Restano comunque fermamente radicate nella tradizione popolare questa leggende che riconducono ai ritrovamenti miracolosi della Sacra Immagine, contribuendo a creare intorno al quadro un indicibile senso mistico e accrescendone, quindi, il culto e la venerazione. Infine, in occasione della mostra iconografica Gli Angioni di Napoli e Montevergine, tenuta nel 1997 presso la Biblioteca statale di Montevergine, padre Placido Mario Tropeano, anch’egli monaco benedettino ed attuale direttore della Biblioteca, ha ricostruito con buona approssimazione la storia della prodigiosa immagine, concludendo che essa può essere ragionevolmente ascritta al catalogo organico di Montano d’Arezzo, i cui rimaneggiamenti furono tanti e tali da ridefinire quasi totalmente la geometria del quadro, giustificando così quest’ipotesi.
a cura di Giovanni Profeta
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