Videogiochi violenti in Italia: un fenomeno praticamente senza regole che rischia di colpire soprattutto i minori anche per la diffusa mancanza di informazione e consapevolezza delle famiglie. E un disegno di legge da anni fermo in Parlamento. Sulle cause di questa situazione e sulle possibili soluzioni abbiamo raccolto l’opinione di
Luca Borgomeo, presidente dell’Associazione di spettatori cattolici (Aiart) che da anni è attenta e attiva su questo tema.
Da tempo si chiede un intervento a tutela dei minori. Perché questo stallo? “La lobby dei produttori di videogiochi ha una grande capacità di pressione su Parlamento e Governo. Questo spiega perché in Italia non abbiamo le stesse regole in vigore in altri Paesi. Se ci fosse una sollecitazione forte dell’opinione pubblica i legislatori dovrebbero rendersi conto della situazione e porre rimedio”.
Sembra una posizione piuttosto netta… “Non siamo contro i videogiochi, anzi riteniamo che possano essere strumenti utili, contribuendo anche alla formazione, ma a certe condizioni: che siano controllati e verificati nei contenuti. Scaricare la responsabilità dei controlli sui soli genitori è però immorale. I genitori devono essere attenti e informati. Ma la responsabilità è di chi accende il fuoco, non di chi non sa come spegnerlo. Da parte dei produttori di videogiochi dovrebbe esserci una responsabilità sociale che oggi, invece, è del tutto carente”.
Per quali ragioni? “Qualcuno rileva che i videogiochi violenti rappresentano una bassa percentuale del mercato complessivo. Si tratta di un’affermazione all’insegna dell’ipocrisia perché il problema vero non sta nel numero di videogiochi prodotti ma in quello di videogiochi venduti. A chi produce videogiochi violenti viene da chiedere: ‘tu hai figli?’, ‘tu hai nipoti?’, ‘lo metteresti nelle loro mani un videogioco contenente stupri, sangue, violenza di ogni tipo?’. Qualcuno potrebbe ritenere che il proprio figlio o nipote non ripeterà mai quello che vede nei videogiochi violenti, trovando un accomodamento morale. Ma qualcuno potrebbe aprire gli occhi…”.
Qual è la situazione normativa in Italia? “L’unica regolamentazione è quella del Pegi (con l’indicazione obbligatoria dei contenuti di un videogioco e dell’età per la quale è adatto, ndr). Questo tentativo di orientare e informare l’acquirente è positivo. Il Pegi, però, è un’associazione finanziata dai produttori, per cui controllore e controllato si riconducono allo stesso soggetto. Inoltre, in caso di violazioni, non sono previste sanzioni verso produttori, distributori e venditori. Pur in assenza di leggi che vietano la produzione, ci sono disposizioni che limitano il commercio e la diffusione. Leggi generali che tutelano il cittadino non solo dovrebbero uniformare una legislazione oggi non ancora presente ma, in carenza di norme specifiche, dovrebbero essere utilizzate da un giudice in presenza di azioni nelle quali la parte lesa sono i minori. Ad oggi è impensabile che un genitore citi in giudizio qualche ditta produttrice perché il figlio ha avuto dei danni dall’utilizzo dei videogiochi. E così la lesione dei diritti non comporta rischi per chi è responsabile”.
Cosa fare? “Bisogna innanzitutto impedire che una materia così importante rimanga fuori da ogni normativa. Di codici che affermano principi largamente condivisi ce ne sono diversi: la Carta di Treviso, il Codice ‘Media e minori’, i codici delle emittenti tv, lo stesso Pegi… Per quanto riguarda i videogiochi si codifichino i principi e chiunque mette sul mercato un prodotto venga obbligato a certificarne la conformità al codice. Se poi viene rilevata qualche violazione a seguito di segnalazioni da parte di utenti, associazioni o organi di stampa dovranno essere inflitte sanzioni. Questo comporta l’individuazione di un soggetto pubblico indipendente per la verifica delle contestazioni e la irrogazione delle sanzioni, che devono avere carattere deterrente. Poi c’è un secondo aspetto: bisogna lavorare su minori e genitori…”.
In che modo? “Bisogna far crescere la consapevolezza dei rischi educando ad un uso critico e responsabile dei media e quindi anche dei videogiochi. Alcuni anni fa come Aiart abbiamo raccolto 70mila firme a sostegno di una legge di iniziativa popolare sulla media-education: la nostra proposta è quella che vengano dedicate 6 ore nell’anno scolastico per consigliare le modalità di utilizzo dei media e indicarne i pericoli. Ma abbiamo anche scritto alla Presidente della Rai per sollecitare la realizzazione di un programma televisivo per educare all’uso dei diversi media. Non possiamo però non rilevare come famiglia e scuola siano in difficoltà nell’educazione delle giovani generazioni: pensare di scaricare su queste due realtà compiti che sono più generali è una scorciatoia che puzza di ipocrisia”.
Per questo è indispensabile un intervento regolamentatore? “Certo. D’altra parte quando si compra una scatola di biscotti, sull’etichetta è riportata una serie di informazioni per l’acquirente. Se dopo un malessere per aver mangiato un biscotto contesto l’esattezza della certificazione e questa viene verificata siamo di fronte a un mio diritto leso e qualunque giudice dandomi ragione chiede il risarcimento. Siccome si sono verificati fatti di cronaca collegati all’uso di videogiochi violenti, perché non agire così anche in questo settore?”.