Negazione. Ma così non si finisce per tacere la morte? “Se già prima – risponde Piermario Ferrari, docente di Filosofia e Teologia e preside per 25 anni della Facoltà Teologica di Novara – il problema della morte nella sua dimensione reale e cruda, era la sua rimozione, il non parlarne e non assistervi, con la dimensione virtuale peggiora la situazione e si fa fatica a cogliere l’identità stessa del morire”. “Testimonianze diverse – afferma Piermarco Aroldi, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano – dicono che la nostra cultura ha sempre meno parole per esprimere il lutto. Però di fronte a questo silenzio il dolore chiede di essere espresso. La rete è diventata un luogo che fornisce discorsi e spazi per dire quel dolore che non sappiamo esplicitare altrimenti. Ho in mente le pagine di ragazzi che continuano a sopravvivere e diventano luoghi di memoria in cui tornano amici e parenti, esempio straordinario di come la rete si presti a mantenere un culto della persona che forse non c’è più nei confronti delle tombe al cimitero”. A patto di non confondere memoria e presenza attuale. “Si ha – riflette Giovanni Boccia Artieri, docente di Sociologia dei new media all’Università di Urbino – una comunicazione viva, fatta da una persona morta, perché chi arriva sulla pagina trova dei post in prima persona”.
Distacco. Il rischio è di non elaborare il lutto, sostituendo alla vita piena di chi non c’è più un’esistenza palliativa. “Lo spazio virtuale – dichiara Adriano Fabris, professore di Etica della comunicazione e Filosofia delle religioni all’Università di Pisa – in un’epoca in cui la fede in un aldilà religiosamente connotato non è più radicata e diffusa, ci offre un aldilà ‘pronta cassa’. La sopravvivenza dopo la morte assume forme nuove e inedite, in cui si laicizza il concetto di ‘memoria’ del carme ‘Dei sepolcri’ di Foscolo, non più riservato ai grandi uomini e alla portata di tutti. Ma questa memoria in realtà non è eterna, è legata alla volontà di altre persone di connettersi con me e se nessuno si connette sono morto due volte”. Perché in rete non c’è alcuna sepoltura, neppure “illacrimata”, e quando il tempo allontana dalla pagina dell’amico defunto il cadavere digitale è abbandonato all’aria aperta. “Non c’è l’elaborazione del congedo – continua Fabris – nella realtà virtuale manca il corpo e non c’è la possibilità di una sepoltura, momento di elaborazione in cui ci si rende conto che non ci sarà più la presenza fisica della persona, ma che questa sarà presente in altre forme, per il credente a livello ultraterreno, per il laico nella memoria”.
Nuovo larario. Se il web 2.0 si presta a essere un mausoleo alternativo, si può formare egualmente una nuova forma di culto dei morti. “Ad un livello profondo – riflette Andrea Vaccaro, teologo e autore di diversi libri e testi sull’immortalità – il rapporto con la propria morte non credo sia molto modificato. Sul piano sociale o interpersonale invece il mutamento si fa percepire. Il web 2.0 potenzia ed allarga pressoché illimitatamente tutti gli spazi e, nello specifico del cimitero online, consente a tutti di deporre il proprio pensiero, il proprio fiore simbolico e la propria preghiera sulla tomba virtuale di ogni persona cara”. In forme che rappresentano una nuova tipologia: “In questa cornice – prosegue Vaccaro – è senz’altro possibile vedere una nuova forma di culto dei defunti. Certo, in taluni casi, non si può escludere qualcosa di psicopatologico”. “Con queste nuove dimensioni – concorda Ferrari – diventano nuovi anche i culti. Quali sono i nuovi templi? Che tipo di antropologia stiamo costruendo?”.
Di Giuseppe del Signore per Agensir
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