Categorie: Caritas et Veritas

Vocazione. In viaggio verso l’essenziale

In tempi di disorientamento etico, di incertezze sul futuro individuale e collettivo che interrogano la libertà e la responsabilità, nasce la domanda circa l’effettiva possibilità di vivere pienamente il senso di una vocazione propria, caratterizzante la vita di una persona. Ma si potrebbe affermare che sono proprio le “fatiche” del presente a rendere decisivo per l’uomo di oggi sapersi ripensare alla luce di un’autentica ricerca vocazionale ed educativa, capace di sostenere il cammino della libertà e della responsabilità.

«La mia persona è in me la presenza e l’unità di una vocazione senza limiti nel tempo che m’incita a superare me stesso indefinitamente e opera, attraverso la materia che la rifrange, un’unificazione sempre imperfetta, sempre rinnovata, degli elementi che mi si agitano dentro. La missione essenziale dell’uomo è quella di scoprire progressivamente quella cifra unica assegnatagli come posto ed i doveri che gli competono nella comunione universale, oltre a dedicarsi, contro la dispersione della materia, al raccoglimento della propria persona” (E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica, Bari 1984, p. 77).

Risalta così, in questa bella pagina di Emmanuel Mounier, la centralità della dimensione della vocazione nell’orizzonte della vita personale. La ricerca della propria vocazione conduce la persona all’essenziale e conduce noi stessi all’essenziale della persona. È come se persona e vocazione fossero in qualche modo l’una specchio dell’altra, l’una in grado di illuminare l’altra. Non vi è persona che abbia accolto fino in fondo il compito di essere e diventare se stessa senza che al centro di essa non risieda quello sforzo, quella tensione unica che è ricerca ed esercizio di una vocazione propria. Viceversa non esiste vocazione senza la persona. La vocazione è fondamentalmente vocazione personale pur recando sempre con sé, in modo implicito o esplicito, dimensioni di ordine comunitario.

Ma la vocazione non ipostatizza la persona, piuttosto esprime quello sforzo di unificazione di se stessi cheè ricerca di senso, pur nelle contraddizioni che attraversano il nostro mondo interiore e il nostro proprio essere. La vocazione esprime il dinamismo della persona, la sua volontà di apertura, l’ansia di ulteriorità che le appartiene. La persona, infatti, è – come scrive Mounier nel volume Il personalismo – «un’attività vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione» (E. Mounier, Il personalismo, Editrice AVE, Roma 2004, p. 30).

Farsi carico di se stessi

È proprio qui, nel movimento della personalizzazione, un movimento di conversione del proprio cuore, un progredire costante ma insieme problematico e difficile, che la vocazione affonda le sue radici. Non si tratta, infatti, di uno sforzo agevole: la pigrizia, l’inerzia, l’impotenza, le varie forme di resistenza lo rendono particolarmente impegnativo e faticoso, sempre bisognoso di essere consolidato. È il problema del farsi carico di se stessi come di un compito, facendo convergere le energie di intelligenza, affettività, volontà di cui ognuno è dotato. Volere se stessi è sempre uno sforzo indicibile e mai concludibile al quale educarsi, per il quale bisogna persuadersi. «La vita personale comincia con la capacità […] di riprendersi, di ripossedersi per riportarsi ad un centro e raggiungere la propria unità.

A prima vista questo processo pare un processo di ripiegamento. Ma questo ripiegamento non è che un momento di un movimento più complesso. Se qualcuno vi si arresta e vi si dibatte, vuol dire che è intervenuto un pervertimento. Il fattore principale non è il ripiegamento, ma la concentrazione e la conversione delle forze: la persona non indietreggia se non per spiccare meglio il salto» (Ivi, p. 74).

Questa capacità di tendere all’unità di se stessi e con se stessi, questo raccogliersi per riprendersi, per riprendere in mano la propria vita, è sempre conquista attiva. Il sentimento d’intimità esprime piuttosto «la gioia di ritrovare le proprie sorgenti interiori e di ristorarsi ad esse», non un privilegio che mi ponga al riparo dalla vita sociale, ma un’esplorazione della profondità di noi stessi. «La coscienza intima non è uno stanzino riservato, dove la persona ammuffisce, ma è, come la luce, una presenza segreta e tuttavia irraggiante su tutto l’universo» (Ivi, pp. 76-77). L’esistenza personale è infatti contemporaneamente movimento di interiorizzazione e movimento di esteriorizzazione. Il richiamo all’intimità sembra riguardare solo il primo movimento, ma in realtà vale anche per il secondo. «Il raccoglimento ci libera dalla prigione delle cose» e, nella consapevolezza del valore del tempo e della cura, della pazienza e dell’attesa, evita che venga vanificata l’opera di chi si volge autenticamente a scandagliare le profondità della vita. Ma lo scandaglio della propria intimità non chiude dentro se stessi, anzi, ci fa apprezzaretutto ciò che ci proietta oltre. «Bisogna uscire dall’interiorità per poter mantenere l’interiorità.» Così come un’adeguata relazione con tutto ciò che mi apre oltre me stesso, mi fa cogliere maggiormente il valore dell’interiorità. «Non bisogna disprezzare troppo la vita esteriore perchè senza di essa la vita interiore diventa assurda; così come senza la vita interiore, anche quella esteriore delira da parte sua» (Ivi, pp. 82-83).

Essere liberi è diventare liberi

Tra interiorità ed esteriorità la persona scopre e mette alla prova se stessa, coglie e verifica il senso stesso della sua vocazione, della sua ricerca. Ciascuno si fa persona, diventa ciò che è nelle scelte e nelle decisioni piccole e grandi della vita quotidiana, personale e sociale, familiare e pubblica.

Il movimento di personalizzazione, quel movimento che ha bisogno della piena coscienza della propria vocazione, è il movimento del diventare liberi. L’assunzione piena e consapevole della propria situazione rappresenta il primo atto di libertà dell’esistenza. Può sembrare contraddittorio o quantomeno paradossale, ma è così. Divento libero prima di tutto facendo i conti con la necessità, con le necessità della mia vita. Solo se accetto me stesso, la mia situazione, il mondo da cui provengo, mi rendo libero e sperimento la possibilità di cambiare qualcosa, il mio limite diventa anche la mia risorsa possibile. La libertà non è mai possesso definitivo, ma sempre rinnovata conquista dell’esistenza, è movimento di liberazione attraverso il quale l’uomo assume i suoi limiti e si avvia ad oltrepassarli. Essere liberi è diventare liberi, è farsi liberi, impegnandosi permanentemente a realizzare l’esistenza e il suo compito. «È la persona che si fa libera, dopo aver scelto d’esser libera; la libertà non le è mai offerta come un dato già costituito; e nulla al mondo può darle la sicurezza di esser libera, se essa non si slancia audacemente nell’esperienza della libertà.» All’origine della libertà vi è dunque una presa di coscienza. «La libertà […] non è legata all’essere personale come una condanna, essa gli è proposta come un dono. Egli la accetta o la rifiuta. L’uomo libero è colui che può promettere e colui che può tradire» (Ivi, pp. 95-96). Libertà significa, in fondo, fedeltà al dono ricevuto e responsabilità di fronte ad esso: una persona non raggiunge la sua piena maturità se non nel momento in cui vive questa fedeltà, pur consapevole che infedeltà e tradimento della promessa sono incombenti. Solo di qui si apre la possibilità di una libertà chiamata ad individuare le decisioni da assumere, una libertà responsabile, incarnata, in grado di rendere operative le proprie decisioni, messa costantemente alla prova attraverso l’educazione e la volontà, ma anche una libertà che s’interroga, capace di porsi le grandi domande che accompagnano l’esistenza dell’uomo: quelle su se stessi e sulla vita, sulla nascita e sulla morte, sul dolore e sulla sofferenza.

Il mistero della propria storia si approfondisce, inoltre, sempre nel contesto di una situazione interumana. Provocare alla decisione di sé, quindi, vuol dire insieme sentire la responsabilità per la comunità che ci accoglie, vuol dire pertanto impegnarsi nella ricerca di un benessere storico comune e non individuale. Una libertà che non si traduca in responsabilità rimane astratta; la libertà riceve proprio dal nesso con la responsabilità quell’essenziale prospettiva relazionale che apre agli altri e alle situazioni di vita attraverso un riconoscimento dell’altro fondato sulla piena reciprocità, ma anche molto spesso caratterizzato da forme necessariamente asimmetriche di rapporto. «L’uomo libero è un uomo che il mondo interroga e che al mondo risponde: è l’uomo responsabile» (Ivi, p. 102).

Vocazione, libertà e responsabilità

Nel legame strettissimo tra vocazione, libertà e responsabilità entrano in campo fondamentali parole della vita personale, ma non prive di riverberi sul vivere collettivo, quali scelta, decisione, volontà, e quindi si colgono nella loro evidenza le opzioni di fondo e le decisioni ultime relative all’esistenza personale e alla vita comunitaria e sociale, insieme a scelte concrete compiute e da compiere, mezzi usati e da usare, conseguenze più o meno prevedibili dell’agire. La responsabilità, pur muovendo dal decisivo e fondante rinvio alla libertà del soggetto personale nella sua caratteristica unicità, proprio in virtù della sua dimensione relazionale, sta ad indicare la necessità di legare comportamenti personali virtuosi a scelte e atteggiamenti di ordine sociale, a prese di posizione di carattere culturale e politico, capaci di tenere insieme il rispetto delle regole della vita comunitaria e democratica con l’efficacia dei risultati da raggiungere e la concretezza e la varietà delle circostanze della vita. La responsabilità include in sé anche una responsabilità del pensare che è certamente responsabilità del discernimento, responsabilità per un’intelligenza adeguata delle situazioni e delle questioni, ma anche responsabilità del sapere o del non sapere, delle conseguenze, cioè, che il sapere o l’ignoranza possono di per sé generare.

La responsabilità, inoltre, non può mai essere tutta interamente riferita al presente. Vi è una responsabilità verso la storia, una risposta che, come singoli e come comunità o popolo, dobbiamo al passato, nel senso di una continuità da salvaguardare o di una liberazione da attuare, diventando così responsabili di fronte al futuro. Vi è come una solidarietà con la storia, con la realtà che implica sempre una responsabilità da assumersi rispetto al tempo: al proprio tempo, al tempo passato, al tempo che viene.

In tal senso vi è anche un intreccio necessario e sempre possibile fra la capacità di coltivare l’umanità nella contingenza e il saper alimentare e sostenere la speranza di un futuro migliore per tutti, fra l’ordine delle relazioni più prossime, che è quello fluido dei sentimenti e dei desideri, e il sentirsi parte di un destino comune, di un’umanità più ampia, che è l’ordine di una progettualità condivisa e di una temporalità proiettata nel futuro.

La responsabilità è in definitiva anche una presa di posizione di fronte e in relazione a Dio. «Responsabilità – scrive Martin Buber – presuppone uno che mi appella primariamente, da una regione indipendente da me, al quale debbo rendere conto. Egli mi parla di qualcosa che mi è affidato e mi chiede di prenderne cura. Egli mi appella a partire dalla sua fiducia e io rispondo nella mia fedeltà, oppure nella mia infedeltà nego la risposta, o ancora, dopo essere caduto nell’infedeltà, me ne libero con la fedeltà della risposta. […] Dove nessun appello primario mi può toccare, perché tutto è mia proprietà, la responsabilità è diventata un’ombra. E contemporaneamente si dissolve il carattere reciproco della vita. Chi non dà più risposta, non percepisce più la parola» (M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 234). E ancora: «C’è autentica responsabilità solo là ove ci sono vere risposte» (Ivi, p. 201).

Un nodo-chiave da pensare e ripensare

In questo senso possiamo affermare con Dietrich Bonhoeffer che «la struttura della vita responsabile è determinata da due fattori: dal vincolo della vita con l’uomo e con Dio e dalla libertà della vita personale. Quel vincolo dà origine alla libertà della vita del singolo. Non esiste responsabilità al di fuori di quel vincolo e di quella libertà. La vita che quel vincolo ha reso altruistica e disinteressata è l’unica veramente libera di esplicarsi e di agire in modo personale» (D. Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1983, p. 189). Per questo l’azione responsabile è vincolata e nello stesso tempo creativa, implica la necessità di esporsi in prima persona, ma a partire da un vincolo e muovendosi all’interno di esso. «Obbedienza e libertà – sottolinea Bonhoeffer – si realizzano ambedue nella responsabilità che reca in sé la tensione esistente fra loro. Renderle indipendenti l’una dall’altra equivale a far cessare la responsabilità. […] Luomo responsabile invece si trova fra l’obbligo e la libertà, deve osare di agire in libertà pur essendo vincolato, e non trova la propria giustificazione né nell’obbedienza né nella libertà, ma soltanto in colui che lo ha collocato in quella situazione umanamente insostenibile e che esige che egli agisca. L’uomo responsabile affida a Dio se stesso e le proprie azioni» (Ivi, p. 212). È questo «un profondo mistero che riguarda tutta la storia. L’uomo che opera nella libertà della sua personalissima responsabilità vede le proprie azioni aprirsi alla guida di Dio» (Ivi, p. 209).

Vocazione, libertà, responsabilità. Un intreccio chiaramente improntato in senso relazionale, una dinamica al cuore della vita della persona, sicuramente un nodo chiave da pensare e ripensare.

In tempi di disorientamento etico, di incertezze sul futuro individuale e collettivo, di fronte alle provocazioni nuove che lo sviluppo scientifico e tecnologico pone alla libertà e alla responsabilità, nasce l’interrogativo circa l’effettiva possibilità di riconoscere e di vivere pienamente il senso stesso di una vocazione propria, essenziale, caratterizzante la vita di una persona. Ma, paradossalmente, si potrebbe affermare che sono proprio le “fatiche” del presente, le provocazioni del nostro tempo a rendere decisivo per l’uomo di oggi sapersi ridire e ripensare alla luce di quel centro della vita che è rappresentato da un’autentica ricerca vocazionale, capace di sostenere il cammino della libertà e della responsabilità. di Franco Miano*

*Presidente Azione Cattolica Italiana

Nel giorno in cui si celebra  la 51ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, viste – dal titolo del Messaggio del Papa – come “testimonianza della verità”, vi proponiamo questa intensa riflessione del presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, Franco Miano. (l’articolo è stato pubblicato in «Dialoghi», n. 4/2009)

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